DOBBIAMO DAVVERO FESTEGGIARE GARIBALDI? SIAMO SICURI CHE FU VERA GLORIA?

DOBBIAMO DAVVERO FESTEGGIARE GARIBALDI?

Mi ha fatto piacere vedere su “Il Quotidiano della Calabria” del 27 dicembre 2009, che il mio articolo pubblicato da Galatro Terme News sull’abate Antonio Martino ha aperto un ampio servizio di quattro pagine, ove veniva ricordato “L’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia e la questione meridionale: storia di un Sud negato tra fallimenti e nostalgie”.

Nel servizio de “Il Quotidiano della Calabria” veniva lamentato il fatto che, a fronte di un decreto legge del 1 ottobre 2007, volto a favorire le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, nulla o quasi è stato previsto in Calabria per ricordare questo evento, anzi si è sprecata, ancora una volta, l’opportunità del largo coinvolgimento del Paese intorno all’Unità Nazionale.

Ma… mi chiedo? Siamo sicuri che, come popolo del Sud Italia, dobbiamo proprio celebrare le “eroiche gesta” garibaldine? Anche se Garibaldi è il personaggio più mitizzato della Storia italiana e fiumi d’inchiostro sono stati consumati per costruire ad arte la sua biografia, non sono il solo a pensare che nella realtà la sua imagine è, sicuramente, diversa da come ce l’hanno descritta tutti i libri che ci hanno fatto studiare a scuola. Però, ancora oggi, anche nel nostro Meridione, bisogna fare attenzione “a parlar male di Garibaldi”,  perché da tanti è ritenuto poco meno che una bestemmia!

La storia dell’ “eroe dei due mondi” comincia dal Sudamerica, dove sbarcò per non finire impiccato: qui praticò la pirateria per il commercio degli schiavi asiatici. In Perù fu coinvolto in un furto di cavalli e gli furono tagliati i padiglioni delle orecchie, ecco perché teneva i capelli lunghi. Rientrato in Italia partecipò alla Prima guerra d’indipendenza e poi alla proclamazione della repubblica romana, tenendo fede alla sua conclamata avversione alla religione cattolica e alla Chiesa. Con la spedizione dei Mille nel Regno delle due Sicilie, diventa l’eroe per antonomasia.

Già… cosa possiamo dire dei “Mille”: una spedizione finanziata dalla massoneria con una somma spaventosa con la quale potè corrompere generali, alti funzionari e ministri borbonici. Anche se, arrivato a Palermo non gli bastò solo corrompere, ma saccheggiò il Banco di Sicilia di ben cinque milioni di ducati e tutte le chiese che capitarono sulla sua strada.

Tutti i beni della Chiesa furono incamerati, chiuse le case e i conventi, numerosi vescovi incarcerati, altri esiliati, tutti dovettero subire spoliazioni, perquisizioni e insulti.

A Bronte contadini inermi furono massacrati “in nome del progresso sociale che veniva a liberarli dalla barbarie borbonica”. Quello fu un giorno storico per i siciliani: ebbero modo di capire in quali mani erano caduti (“ca di la furca passuammu ‘a lu palu…”, per come, già allora, commentò il nostro abate Martino).

La leggenda dei Mille, per come ci è stata raccontata, recita che la spedizione garibaldina andava a liberare un paese retrogrado e incatenato ai ceppi borbonici. Nulla di più falso: infatti la “conquista del Sud”, dopo qualche breve illusione, provocò la reazione popolare del meridione, il cosiddetto “brigantaggio”, che vide coinvolte decine di migliaia di persone.

E questo è ancora poco, dietro c’è ben altro, finalmente, negli ultimi tempi, pare che la verità sta emergendo e nasconderla sarà sempre più difficile.

La versione che ci hanno dato a scuola è scarsamente credibile: forse è arrivato il tempo di riscrivere quelle pagine, anche perché, proprio noi meridionali non possiamo pensare a Garibaldi come ad uno dei “padri” della nostra Patria e, a conti fatti, l’unico vero padre della patria rimane sempre e solo Dante Alighieri.

Nel 1989, a fronte delle tante “celebrazioni” per i cento anni della morte di Garibaldi ho scritto tra il serio e il faceto, una piccola missiva a Garibaldi, che ritengo ancora attuale e significativa per chi pensa che il nostro “eroe” vada, anche oggi, ricordato e festeggiato.

CARO GARIBALDI

Caro Garibaldi, probabilmente tu non ti ricorderai di me, non foss’altro perché non mi hai visto né conosciuto. Io di te, invece, mi ricordo benissimo.

Cominciai a conoscerti quando avevo ancora i calzoni corti e le ginocchia sbucciate. Il mio maestro mi parlava di te come di un eroe impareggiabile: “Garibaldi è il liberatore del Meridione, colui che cacciò via gli oppressori, i Borboni, e ci regalò la libertà…”.

Così ci diceva il caro vecchio maestro con il dito puntato in alto: seguendo quel dito, perennemente teso verso il cielo, i nostri sguardi di alunni con le ginocchia sbucciate si infrangevano contro il soffitto dell’aula, da dove pendevano i cartocci e gli aerei di carta, prodotti da intere generazioni, simbolo della nostra libertà e della continuità storica.

Caro Garibaldi, ti confesso che la notte sognavo di te (Mazinga ancora non lo conoscevo e quando l’ho conosciuto avevo già smesso di sognare): eri in camicia rossa e cacciavi via dalla Sicilia tutti quegli americani in camicia, insopportabilmente, bianca che cercavano di assalire i poveri siciliani per vendere loro insolite bibbie. Quando fui un po’ più grandicello mi rivelarono, finalmente, che i Borboni non erano una setta religiosa, né tanto meno una marca di caffè, come alcuni miei compagni, arditamente, sostenevano. Mi rivelarono altresì che tu, mio buon generale, non avevi proprio liberato il Meridione, ma l’avevi tolto ad un padrone, per consegnarlo ad un altro ancora più arrogante e violento del precedente. Io non ci volli proprio credere: “Le solite interpretazioni faziose della storia…”, pensavo tra me e me; anche se, molti sostengono che quello che è veramente accaduto sui libri di scuola non c’è scritto. Non potevo credere che tu, appena sbarcato in Sicilia ti fossi proclamato Dittatore, avessi svuotato conventi e monasteri saccheggiandoli, avessi sciolto, a forza i Gesuiti e stabilito bivacchi militari nelle splendide Chiese meridionali. Non mi spiegavo ancora i versi del De Sivo: “Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni; e galantuomini voi venuti a depredar l’altrui?”.

Una cosa che mi sono sempre chiesto è come hai potuto, con 1.000 uomini male armati e peggio vestiti, distruggere un Regno con un esercito di 100.000 uomini? “Per il gran valore dei garibaldini e l’appoggio delle popolazioni…” mi ha detto qualcuno. Ma altri sostengono che, in realtà, potevi essere rigettato in mare fin dallo sbarco e la vera arma vincente, che ti spianò la strada, fu quella della massoneria piemontese e francese che aveva comprato tutto il palazzo di Federico II.

Vuoi che ti faccia qualche esempio? Ricordi quando a Calatafimi il generale Landi (al prezzo di 18.000 ducati) impedì ai suoi di sbarrarti la strada; oppure quando, senza alcuna ragione, 20.000 soldati vennero fatti uscire da Palermo senza colpo ferire; e, ancora, a Milazzo e Messina, migliaia di soldati di Francesco vennero, inspiegabilmente, spediti sulle montagne. Inoltre, penso che non ti sfugga quando il generale Ghio disciolse altri 10.000 soldati: altrettanti ne disciolse il generale Briganti che però venne fucilato sul posto, per alto tradimento, dai suoi stessi soldati.

Caro Garibaldi, ritengo che non devi sforzare troppo la memoria per ricordare come le decine di città “reazionarie”, che avevano organizzato la “resistenza” (da Isernia a Venosa, a Barile, Monteverde, Cotronei, san Marco e così via) furono distrutte e bruciate dai tuoi garibaldini: villaggi, cascine, molini tutti saccheggiati, e tanti contadini massacrati.

Quando poi venni a sapere che avevi mandato un battaglione di soldati a fucilare i poveri contadini di Bronte, che volevano prendersi le terre dei signori, credetti subito che l’operazione fosse stata condotta, autonomamente, da quella testa calda di Bixio.

Quante altre me ne hanno raccontate sul tuo conto… eppure la mia simpatia nei tuoi confronti non è venuta meno; mi piace ancora ricordarti con la tua barba rossa, con l’aspetto di arcangelo liberatore, mentre assisti alle funzioni sacre, tu laico e massone, in qualche cattedrale siciliana.

C’è una cosa, però, che ti voglio confessare: tutte queste attenzioni che, a più di un secolo dalla tua morte, ancora ti sono attribuite, mi lasciano perplesso. Pensa che, recentemente, è anche intervenuto il Presidente della Giunta regionale calabrese, per annullare il decreto che prevedeva, per l’ampliamento di una strada, la demolizione della vecchia casa di Santa Domenica di Ricadi che ti ospitò dopo che ti ferirono in Aspromonte.

L’idea, poi, che mille ragazzini in camicia rossa e con le ginocchia sbucciate siano stati portati a disturbare il tuo sonno secolare, sbarcando a Caprera per deporre ghirlande di garofani rossi sulla tua tomba, mi fa rabbrividire: anche se, ormai sono di moda i viaggi organizzati, con tutti i confort, nei luoghi del Continente americano dove tu hai rischiato la pelle.

Caro Garibaldi, ma tu lo sai che la Regione siciliana voleva fare un monumento in tuo onore con la modica spesa di un miliardo di lire…? E dire che la Storia ti vide morire non solo vecchio, ma anche povero (almeno su questo punto sembra che gli storici siano tutti d’accordo).

Ma guarda un po’? Mi vien da pensare, vuoi vedere che l’eroe, adesso, vogliono farlo santo? In effetti abbiamo un noto Segretario di partito che, per ritornare a fare il Presidente del Consiglio, pensa che c’è bisogno di un “santo laico”. Qualche mese addietro Proposte ha raccontato della polemica sulla scomparsa di un quadro di un noto pittore nicoterese: il dipinto che ti raffigura è stato il pomo della discordia che ha minato la stabilità dell’attuale governo, in quanto il noto Segretario ha visto la scomparsa del quadro come uno sgarbo insostenibile. Strano come non abbia rimboccato il Ministro degli Esteri quando, in una trasmissione televisiva, ha affermato che “una delle cose più piacevoli alla sua età, è che si può dire male pure di Garibaldi”.

Non ti meravigliare, mio buon Garibaldi, se presto circoleranno lucenti immaginette con la tua effigie o se inappuntabili borghesi verranno a deporre ghirlande di edere e garofani ai piedi delle tue statue; non stupirti se i nuovi asceti della politica per te prenderanno i voti, o se il tuo volto tornerà a dipingersi sui muri delle nostre case…

Caro Giuseppe (scusami la confidenza, ma dopo queste poche righe penso che tu avrai cominciato a conoscermi) io, ad esser sincero, preferisco ricordarti così come ti ho conosciuto da bambino: un po’ Braccio di Ferro ed un po’ Zorro; come l’Arcangelo Gabriele, sempre pronto a difendere con la spada la libertà degli oppressi. Preferisco ricordarti con la camicia rossa, lo sguardo nobile e, soprattutto con quella gamba ferita che, fino a ieri, mi faceva guardare con fierezza alle mie ginocchia sbucciate…

E’ DIVENTATO DI MODA PARLAR MALE DI GARIBALDI

di Domenico Distilo

Caro Michele,

non so cosa ci avremmo guadagnato, dico noi del Sud, a restare sudditi, non bene o male cittadini, dello Stato più arretrato d’Europa, che veniva governato con le tre effe (festa, farina e forca) e il cui esercito versava in una disorganizzazione tale che una delle “manovre” della marina da guerra borbonica, denominata “facite ammuina”, consisteva nel mostrare all’avversario di stare eseguendo chissà quali operazioni, mentre ci si limitava a far sì che “chilli chi stannu abbass, vann’in coppa; chilli chi stann’in coppa, vannu abbass; chi sta a destra va a sinistra; chi sta a sinistra va a destra; chi non ha nient’a fa, s’arrimini a cca e a lla”.

Sarà pure vero che, come diceva Martino, “di la furca passammu a lu palu”, ma al palo siamo passati dalla forca, appunto, non certo dal paradiso terrestre.

La teoria della cospirazione massonica che avrebbe fatto cadere il Regno del Sud alimenta una storiografia intesa a dimostrare una tesi precostituita, cioè che si sarebbe dovuto evitare il Risorgimento, i cui eroi e simboli sarebbe giunta l’ora di demitizzare.

Così come il “revisionismo” storico antiresistenziale di Pansa ed altri, quello antirisorgimentale funziona enfatizzando – il più delle volte in chiave romanzesca – alcuni fatti marginali e oscurando, letteralmente, le cose essenziali.

Non che non si debbano conoscere anche le cose marginali, che contengono spesso risvolti umanamente tragici, ma nel caso della “conquista” garibaldina del Sud le cose essenziali sono:

1° – se il regno borbonico fosse stato in perfetta salute, se al momento dello sbarco dei mille non si fosse già trovato ad essere una caricatura di Stato, che teneva in apprensione le diplomazie di tutta Europa per via di una situazione esplosiva, da rivoluzione sociale imminente, non sarebbe stato travolto con tanta facilità, anche mettendo nel conto il presunto tradimento dei suoi vertici militari e politici;

2° – i siciliani, che mal sopportavano l’unione al continente da sempre – del resto sei secoli prima c’era stata la Guerra del Vespro – erano in rivolta e furono proprio le notizie dalla Sicilia a indurre Garibaldi a rompere gli indugi e a far partire la spedizione;

3° – gli intellettuali del Sud, da Settembrini a Poerio a De Sanctis erano tutti per l’unità d’Italia e pensavano all’unisono che il processo unitario avrebbe dovuto essere guidato dal Piemonte. Anzi, molti di loro, costretti ad andare via dalle loro terre a causa delle persecuzioni della polizia borbonica, avevano costituito una colonia a Torino e si davano parecchio da fare per creare le circostanze favorevoli all’intervento piemontese;

4° – la classe dirigente meridionale, che mezzo secolo prima aveva attraversato indenne l’eversione della feudalità di Giuseppe Bonaparte, passò armi e bagagli con Garibaldi – la storia del Gattopardo, raccontata da Tomasi di Lampedusa, è emblematica – proprio per continuare a passare indenne nei sommovimenti politici stornando ogni pericolo di rivoluzione sociale.
Dunque, di cosa stiamo parlando? Nella situazione determinatasi nel 1860 in Italia la “conquista” garibaldina era di gran lunga la migliore delle soluzioni possibili, certamente migliore della sopravvivenza del Regno delle due Sicilie. Questo, attraversato dalla tensione sempre più acuta tra Sicilia e Continente e alle prese con la sempre più evidente incapacità della sua classe dominante di continuare a tenere compresso il mondo contadino, era sul punto di esplodere, come attesta il crescendo di allarme riscontrabile nei rapporti dell’ambasciatore inglese al suo governo nell’ultimo scorcio degli anni Cinquanta. Certo, i contadini che avevano pensato che Garibaldi avrebbe fatto la rivoluzione sociale, non solo quella politica, furono delusi e diedero vita al brigantaggio, che però infestava le campagne del Sud si può dire da sempre.

La tesi neoborbonica, questo è secondo me il punto, riecheggia, se non riproduce, quella gramsciana secondo cui il Risorgimento al Sud fu una “rivoluzione mancata”. Fu il grande storico siciliano Rosario Romeo, liberale di formazione crociana e autore di una monumentale biografia di Cavour, a confutare Gramsci sostenendo che “se non si fosse fatta nel modo in cui si è fatta l’Italia non si sarebbe mai fatta”. Per cui il Risorgimento fu una “rivoluzione compiuta”, pur con tutti i suoi limiti e contraddizioni, non una mancata. E fu Garibaldi a compierla. Ricordiamocelo nell’impazzare dei revisionismi e in vista dei 150 anni dell’unità.

NONOSTANTE TUTTI I COMPROMESSI DEL RISORGIMENTO… SEMPRE ITALIANI

Caro Domenico,

se, come tu sostieni nella risposta al mio articolo su Garibaldi, nel campo delle valutazioni storiche, la situazione determinatasi nel 1860 era di gran lunga la migliore delle soluzioni possibili e se, come diceva il Martino “di la furca passammu a lu palu…” e al palo siamo passati dalla forca e non certo dal paradiso terrestre, è anche un dato indiscutibile che il Meridione d’Italia ha pagato a caro prezzo (un prezzo che stiamo abbondantemente pagando ancora oggi!) le conseguenze della “liberazione” da un padrone, per essere consegnato ad un altro padrone ancora e più arrogante del precedente. Comunque la vediamo, sempre sotto un “padrone” siamo andati a finire… Questo è, a mio avviso, un dato storico inconfutabile, anche se oggi, a distanza di 150 anni dall’Unità d’Italia, riconosco che ci sono delle valutazioni, di vario genere, a favore di questa Unità (comunque essa sia stata fatta!) che non possiamo tacere… nonostante tutto!

Non sei stato il solo che mi ha rivolto più di un appunto al mio “attacco” a Garibaldi… ne ho ricevuti tanti.

Un caro amico, fine giurista e attento studioso della nostra Storia, mi ha scritto: “E’ vero che Garibaldi si poteva fare li fatti sua, e che se la contessina Raimondi non gli avesse fatto le corna, avrebbe avuto altro a cui pensare, e noi saremmo sudditi di Sua Maestà il Re delle Due Sicilie (Dio ci guardi); ma se basta essere un buon soldato per essere un eroe, lui è stato il migliore degli italiani dell’epoca moderna: ha battuto argentini, francesi, austriaci, napoletani, prussiani. Non ha battuto la Pallavicini, ma perché aveva deciso di non sparare. Pensa che figure squallide gli altri generali. Montanelli ha detto: i generali italiani vincevano di rado, ma in compenso vincevano male”.

Senza cambiare opinione su quanto ho scritto nel mio articolo su Garibaldi, proprio in questi giorni di violenti attacchi all’Unità della nostra Patria, anche se ci accorgiamo di quanta retorica certa storiografia ha caricato le figure dei nostri “Padri della Patria”, nonostante tutti i distinguo iniziali e tutte le riserve e le accuse su “come” questi Padri hanno fatto l’Italia, nonostante tutte le “grandi riserve” che, soprattutto come Meridionali, abbiamo il diritto di esprimere ed evidenziare…  nonostante tutto questo, non si può non riconoscere che, anche se non ce l’hanno fatta a fare bene le cose, almeno ci hanno provato e non potevano fare diversamente.

Scriveva Indro Montanelli: “Sapevo che Vittorio Emanuele, coraggioso caporale, era stato tirato per i capelli a fare un’Italia, di cui non aveva mai imparato nemmeno la lingua… sapevo che Mazzini voleva farla in un modo del tutto diverso, cioè nel modo in cui non si sarebbe mai fatta… sapevo che Garibaldi ne aveva liberata mezza solo perché nessuno aveva pensato che potesse riuscirci… sapevo che Cavour, quando per la prima volta mise piede a Firenze, ci si sentì all’estero, come oggi dice di sentircisi il senatore Miglio. E sapevo anche che questi Padri si erano fra loro detestati, ed ognuno di loro aveva fatto quello che aveva fatto, anche per impedire che lo facesse qualcuno degli altri tre”.

Ma, continua Montanelli, di fronte ad altri Padri della nostra Patria, i Padri del Risorgimento sfigurano di certo… meno che su un punto: “Sono i primi quattro italiani, che hanno operato vestiti da italiani, e non travestiti da spagnoli, o da francesi, o da tedeschi: cioè non hanno servito nessuno, se non l’Italia quando ancora non c’era: e che ora nel momento in cui rischia di non esserci più, consentono a me di continuare a servirla, o almeno di serbarne l’illusione. Non gli chiedo scusa dei diminuitivi pensieri su di loro. Seguito a guardarli senza lenti di ingrandimento. So che l’Italia la fecero anche con molti pasticci e compromessi, voglio dire un po’ da magliari, millantando credito, imbrogliando le carte del gioco, spesso gabellando le disfatte per vittorie. Ma era l’unico modo in cui, senza gli italiani, si poteva fare l’Italia, e metterla in condizione di fare a sua volta gli italiani, riscattandoli dalla loro secolare condizione di travestiti”.

Caro Domenico, per concludere, cosa vuoi che ti dica: pur continuando a guardare questi Padri del Risorgimento, senza lenti di ingrandimento e riconoscendo che l’Italia la fecero da magliari, con pasticci e compromessi e millantando credito e imbrogliando le carte, nonostante tutto questo, non possiamo non sostenere che alcune forze politiche ostili al Meridione possono anche tentare di minare l’Unità della nostra Patria (il cosiddetto “federalismo” di cui parla la Lega è l’anticamera di questo!) ma noi, con tutte le contraddizioni e riserve espresse, e senza cambiare opinione su come hanno fatto l’Italia, i Padri del Risorgimento, anche se di modesto blasone, oggi più che mai, non possiamo non riconoscerli.

Diceva Montanelli: “Saremo pure una famiglia dappoco, noi italiani, ma è sempre meglio che bastardi di famiglie altrui, come qualcuno vorrebbe, rinnegandola, farci ridiventare…”.

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