IL CONVENTO BASILIANO DI S. ELIA IN GALATRO

Convento S. Elia di Galatro

Convento S. Elia di Galatro

Verso la fine di una lunga giornata di cammino, degli uomini con dei carichi molto pesanti, si fermarono in un posto solitario e lontano dai rumori della guerra, situato in una località montuosa tra i fiumi Potamo e Metramo.
Erano i monaci dell’Ordine di San Basilio che fuggivano dall’antica città di Taureana, perché distrutta dalla guerra. Uno di loro ispezionò il posto e disse: “E’ ben questo il luogo del quale eravamo alla ricerca, credo che andrà bene per noi. Ringraziamo Dio che ci ha permesso di arrivare fin qui sani e salvi”.
Portavano con loro il corpo di Sant’Elia ed in quel luogo edificarono un Convento ed una Chiesa a Lui dedicata: da ciò derivò la denominazione della località. Erano a più di tre miglia da un luogo abitato situato in una vallata attraversata da un piccolo fiume e abitata da famiglie di contadini, artigiani, boscaioli e conciatori di pelli: tale luogo si chiamava Galatro.
Vi si installarono per la notte, era l’anno 1075, e rimasero per molti secoli, fino a quando non furono costretti ad andare via.

Queste poche righe sono, volutamente, scritte nello stile dei romanzi storici: in effetti, la storia dei monaci del Convento di Galatro, anche se ancora sconosciuta in tutta la sua profondità, è in sé un vero romanzo storico, di origini molto antiche, forse alto-medievali…
Mons. Giuseppe Morabito (1858-1923), in una sua famosa lirica, così ricorda la presenza dei monaci Basiliani nel Convento di Galatro:

… Del mondo un tempo fuggendo i perigli qui vennero romiti del Gran Basilio i benedetti figli di questa valle attratti a’ dolci inviti. …

 

 

 

Convento prima del Restauro

Convento prima del Restauro

Oggi sulle alture del Convento non abita più nessuno, forse è rimasto solo qualche anziano pastore rassegnato a morirci. In un tempo come il nostro, che brucia ogni attesa è strano l’effetto che si prova a visitare le rovine del vecchio Convento: dentro le mura abbandonate vengono incontro vecchi fantasmi col volto austero e sereno della fede e con le mani screpolate dal duro lavoro dei campi, che ricordano vicende povere e serie di vita monastica, ignorate dal populismo letterario e dalla sociologia.Osservando i vecchi scenari del Convento, prodighi nel far riaffiorare immagini passate, comprendo come sia qui radicata, in una pace tanto più grande che il silenzio di questo colle richiama, una identità umana che ha lasciato un segno nei secoli e nella vita della gente: una realtà di valori, di usanze, di fede che, ancora oggi si presenta come la testimonianza di un mondo che non è morto invano, anche se, ai nostri giorni, un “nuovo mondo” ha fatto scomparire tutta questa ricchezza di storia, fede e cultura.

Convento S.Elia Galatro

Convento S.Elia Galatro

Immagino che la prima questione che si è posta ai monaci Basiliani fuggiaschi di Taureana, è stata quella del posto della nuova fondazione: perché andarono a sperdersi in un luogo così lontano e inospitale? La risposta ritengo sia molto semplice: essi cercavano innanzitutto la solitudine, lontano dalla corruzione e dal frastuono delle città; e poi, dovevano trovare i mezzi per sopravvivere e, per questo dovevano avere terre, pascoli, acqua, un bosco che costituisse una cintura di protezione. Le ragioni, dunque, che indussero i Basiliani a stabilirsi su quel colle, non sono state determinate certamente dalla bellezza del luogo, ma sono state dettate dalla loro stessa vocazione e dal loro stile di vita.

Cortile Convento S.Elia

Cortile Convento S.Elia

Contrariamente a quanto afferma un certo romanticismo di cattiva leva, la scelta del posto dove stare non fu mai determinata dal desiderio morboso dei monaci di vivere in boschi selvaggi e su terre incolte. Ai nostri giorni il giudizio è cambiato e si ammira la bellezza dei posti scelti dai monaci, si direbbe, con istinto sicuro: questa ammirazione esige delle riserve. La prima è che i monaci non hanno sempre scelto bene, anzi più di una volta hanno dovuto abbandonare la loro prima fondazione: infatti, bande di malviventi che infestavano la zona del Convento di Galatro, costrinsero i monaci a stabilirsi in un posto più vicino all’abitato. In effetti, nel 1582, veniva costruito un altro Convento in contrada “timpa d’Arusi” o “timpa d’Armi”, che fungeva anche da ospizio-ospedale, considerato che attorno si estendeva un bosco con le acque minerali che i monaci avevano scoperto e consigliato per diverse malattie.
La seconda è che il lavoro dei monaci ha profondamente umanizzato il paesaggio: la bellezza di alcuni paesaggi monastici è impressionante, ma il più delle volte si tratta di una bellezza ottenuta dal secolare lavoro dei monaci stessi.
In tutto il periodo medievale, l’arte non è mai stata tagliata fuori dalle sue origini: il suo linguaggio esprime sempre il sacro. Il piano di un Convento non è lasciato, per fortuna, all’immaginazione dell’architetto, ma deve necessariamente comprendere le esigenze della vita comunitaria dei monaci. Tutte le costruzioni, come il Convento di Galatro hanno un’anima, esprimono un messaggio, traducono uno stile di vita: per secoli essi hanno cantato la gloria di Dio e permesso ai monaci che si votavano a Lui di vivere da uomini.
Il Convento di Galatro, anche se adesso è ridotto ad un ammasso di umili resti di un glorioso passato, nonostante lo stato di abbandono, è sempre una sacra pietra vivente che attesta, al di là della barbarie dei tempi e degli uomini, l’irreprensibile volontà dei religiosi che ci abitavano, di vivere pienamente il loro destino, secondo la visione del mondo elaborata dalla loro fede.
Don Rocco Distilo in un suo mirabile articolo, Galatro al mio sguardo, proprio a voler sottolineare la sacralità e l’insegnamento che viene testimoniato, ancora oggi, dai ruderi del Convento, ebbe a scrivere: “… Alle mie spalle il Sant’Elia, il monte dove un giorno un Monastero di frati basiliani, era cenacolo d’amore e di studio. Mi portò lassù, quasi pellegrino orante e meditante i fasti antichi d’una storia che, alla bellezza della natura, conserta su Galatro e la Calabria tutta una corona di gloria: un passato di fede, di scienza e di arte. Di colle in colle, di balza in balza pare mi venga incontro il Santo Speleota, che quì, forse è sepolto. Ogni pietra, ogni rudere è altare e cattedra. E sento tra le fronde che una leggera brezza mattutina muove appena, un salmodiare dolce. Una soffusa serenità di pace è soltanto turbata dal tormento di sapere e di conoscere. Vorresti quasi scavare con le unghie in questa terra benedetta, vorresti s’aprisse come un libro per leggere e vedere, ma il buio dei tempi e l’oblio …”.

Convento S. Elia -Galatro-

Convento S. Elia -Galatro-

Per quello che, oggi, si può ricavare dai ruderi del Convento di Galatro, la distribuzione dei reparti conventuali era funzionale alle esigenze della vita comunitaria dei monaci. L’entrata del Convento è costituita da un portale ad arco in pietra quadrata. Appena dentro ci si trova subito in uno dei quattro corridoi del chiostro quadrato che da sul cortile interno mediante quattro serie di cinque finestre ciascuna.
Il cuore del Convento, la sua unica ragion d’essere, è la Chiesa: sia essa umile o suntuosa è da essa che ogni giorno, giorno e notte, si eleva la preghiera dei monaci. Nel Convento di Galatro, la Chiesa è un fabbricato di forma rettangolare con i muri perimetrali lunghi circa 20 metri per 10 di larghezza. Essa è orientata verso levante e, per i tempi in cui venne costruita, doveva essere imponente. L’entrata è ad ovest e tutt’intorno si sviluppano le strutture necessarie alla vita della comunità monastica: il chiostro, il capitolo, la biblioteca, il dormitorio, il refettorio… i locali per accogliere gli ospiti e diversi laboratori per la preparazione del pane, del formaggio, del vino.
In ogni Convento mancava completamente il riscaldamento e l’illuminazione era ridotta al minimo: i mezzi per procurarsi olio di oliva o cera d’api erano rari e costosi; il solo luogo per il quale non si lesinava era la Chiesa, essa era sempre suntuosamente illuminata.
C’è da dire che un Convento non è solamente una punta avanzata della preghiera, ma anche un luogo dove regna il silenzio: silenzio che non è solo l’assenza di rumore, ma silenzio concreto, creativo. Una delle caratteristiche più straordinarie della vita monastica è la sua estrema regolarità… tutto vi è regolato, controllato, organizzato con una minuzia incredibile.
Un’idea falsa sui monaci, che bisogna distruggere, è quella di una vita fatta di monotonia e noia, anzi bisogna dire che la giornata del monaco era, per l’epoca, qualcosa di straordinario: una vita ordinata, tutta di civiltà e di cortesia che per lungo tempo si è tramandata solo nei conventi. Ogni convento aveva un padre ospitalario che era incaricato di accogliere gli ospiti di passaggio. Vi erano anche i malati ed i moribondi, bisognava accoglierli tutti… In fondo, a ben guardare le parole “ospizio” e “ospedale” vengono dalla stessa radice: “hospes” cioè “ospite”.
Soprattutto quando la rudezza dei rapporti tra gli individui era divenuta una legge, ciò che colpiva nell’accoglienza dei monaci era la bonomia, l’umanità: si penetrava in un’oasi di pace e di silenzio dov’era piacevole attardarsi.
Nel volgere di alcuni secoli i Basiliani abbandonarono il Convento di Galatro e, al loro posto, il 28 maggio 1532, si stabilirono i frati Cappuccini che rimasero fino a quando, costretti a continui travagli perché le terre circonvicine erano infestate da bande di malviventi, dovettero abbandonarlo.
In seguito alla partenza dei Cappuccini, dopo molte istanze del popolo di Galatro e di altri paesi vicini, i monaci ritornarono e si stabilirono in un luogo non molto distante dall’abitato, dove costruirono un altro Convento ed una Chiesa dedicata a Sant’Elia.
Isolati dal mondo, poveri, disarmati, poco numerosi, i Cappuccini dovettero provvedere alla loro sussistenza quotidiana: dovettero dissodare, irrigare, fare lavori da contadini, da pastori, da falegnami, da muratori… Spinti solo dalla grande fede che li animava, essi riuscirono a rendere umane le foreste selvagge ed incolte nelle quali vivevano, tramandato rilevanti insegnamenti in tanti campi, così come la paziente opera dei copisti ha tramandato il patrimonio culturale dell’antichità.
I frati Cappuccini costruirono anche il Convento di Santa Maria della Sanità, che usarono come ospizio ed infermeria, continuando a fare uso delle acque minerali che i Basiliani in precedenza avevano scoperto che, sembra, sia stata la loro primaria fonte di reddito.
Da più parti si è osservato che solo in un ambiente artigianale preciso e minuzioso come quello monastico, si era in grado di mettere a punto e di trasmettere, di generazione in generazione, le tecniche delicate che permettevano lo sviluppo dell’apicoltura, la cura del formaggio e anche del vino. Non bisogna dimenticare anche che i monaci sono all’origine di numerosi liquori e acquaviti: essi furono i primi e, per lunghi secoli, i soli a possedere un alambicco ed a saperlo usare. Come ogni Convento, nel Medioevo, anche quello di Galatro aveva il suo orto, le sue erbe medicinali, i suoi vivai… Si può ben vedere che l’attività dei monaci è molteplice, c’è tutta una attività, anche economica, che non è irrilevante.
Si ha anche notizia che un frate basiliano, originario di Naso, Conone Navacita (San Cono), di ritorno dalla Terra Santa, intorno al 1200, volle raccogliersi in preghiera nel Convento di Galatro, davanti ai resti mortali di Sant’Elia. Fu in quell’occasione che fece il miracolo, ancora oggi ricordato, di guarire un giovane paralitico dalla nascita, figlio dell’allora Governatore del posto.

Convento S. Elia -Galatro-

Convento S. Elia -Galatro-

Si ritiene anche che l’attività culturale dei monaci di Galatro sia stata notevole: infatti, fu in quel Convento che Bernardo da Seminara, nella prima metà del XIV secolo fu ordinato sacerdote con il nome di Barlaam.
Barlaam compì i suoi studi e ricevette la sua formazione nel Convento di Galatro, divenendo ben presto la figura più eminente della tradizione greca dopo l’estromissione di Bisanzio dall’Italia meridionale: egli, infatti, teologo e filosofo, è il pensatore che mette al servizio della Chiesa orientale le conquiste speculative dell’occidente. Con stima parlarono di lui il Petrarca, che lo ebbe come maestro di greco, ed il Boccaccio.
Il livello di vita spirituale ed intellettuale del Convento di Sant’Elia era tale che Nicolò V, che desiderava tenere florido lo studio della lingua ellenica da promuoversi nei Monasteri basiliani della Calabria, fece restituire ai monaci di Galatro il Convento, che il suo predecessore aveva assegnato alla Chiesa di Mileto: infatti, intorno al 1500, con i beni del Convento si tentò di avviare una scuola di grammatica e di canto per i ragazzi della cattedrale di Mileto, ed una cattedra di greco per i monaci italo-greci.
Copiare manoscritti sembra, all’immaginazione popolare di oggi, essere stata l’attività per eccellenza dei monaci. E benché essi non si siano limitati solo a questo genere di lavoro, anzi tutt’altro, bisogna riconoscere che questo lavoro ebbe sempre una grande importanza spirituale ai loro occhi: tutto ciò che ci è giunto dall’antichità ci è stato trasmesso dal paziente lavoro dei monaci e solo da esso.
I monaci condussero una vita tranquilla nel Convento di Galatro, fino al 1783, quando il terremoto li costrinse ad andare via, distruggendo il Convento ed il fabbricato con le acque minerali.

IL CONVENTO S. ELIA -GALATRO-

IL CONVENTO S. ELIA -GALATRO-

In seguito, ritornarono e si prodigarono per la popolazione colpita dal sisma, fino a quando, il 30 marzo del 1808, furono cacciati da una legge sulla soppressione dei Conventi.
Si chiuse così una pagina di storia religiosa che per lungo tempo, prima ad opera dei Basiliani e poi dei Cappuccini, innegabili benefici religiosi e sociali aveva apportato alla gente non solo di Galatro, ma di tutta la zona vicina.
Ora i monaci non ci sono più: ma lassù al vecchio Convento i fiori avranno sempre i colori della fede e, l’inquietudine che mi ha spinto a cercare, fra appunti e libri, un mondo scomparso, aleggia adesso sulle contrade del Sant’Elia, in un silenzio religioso che ancora pervade, nei volti assenti degli ultimi vecchi che li sopravvivono soli, nel riverbero di sterpi e roveti.
Nella lentezza di un passato sempre presente nella poesia, ma non nella storia, è possibile rivedere quelle immagini, perché la poesia vive d’immagini che il sogno fa riaffiorare dalla memoria del tempo, la storia invece è fatta di volti che non ritorneranno.

 

POSTILLA

L’articolo sopra riportato ha visto la sua prima, breve, stesura nell’estate del 1982, quando è stato pubblicato un brevissimo stralcio, sulla rivista “Historia” nella rubrica “Italia da scoprire: Appello ai lettori”.
Mi piace ricordare questa prima pubblicazione, perché allora mi ha fatto guadagnare, come compenso per l’articolo, 50.000 lire… le uniche e sole che mi sono state corrisposte per tutta la mia, ormai lunga e vasta, “attività giornalistica”.
Successivamente, senza alcuna pretesa di ergermi a storico, ma con il grande desiderio di avere sempre un pensiero, verso dei luoghi del nostro paese, che ritengo carichi di storia, cultura e significato, ho ampliato la ricerca, servendomi anche di alcuni appunti e disegni di un lavoro che il caro amico Carmelino Longo, allora studente alla Facoltà di Architettura dell’Università di Reggio Calabria, aveva realizzato per sostenere un esame.
Una sera, nell’Arcivescovado di Messina, insieme a mia moglie, allora studenti universitari, eravamo in compagnia di un caro amico e sacerdote salesiano, don Giuseppe Riggi, purtroppo scomparso di recente, con il quale parlavano in continuazione di Galatro… dei nostri fiumi, dei nostri monumenti, delle nostre chiese. Quella sera avevo in una carpetta proprio il servizio sul Convento di Sant’Elia e don Riggi mi disse se glielo davo da leggere e se ne poteva fare l’uso che più voleva. Gli dissi che non c’era alcun problema… tanto ne avevo altre copie, sia del testo, che dei disegni e delle foto.
Dopo qualche giorno, quando l’ho salutato per le vacanze di Natale, mi ha detto che mi avrebbe fatto un regalo e lo avrei potuto vedere anche da Galatro… Ho capito cosa voleva dire quando, mattina del 28 dicembre del 1982, ho visto il mio servizio sul Sant’Elia, riportato su quasi tutta la Terza pagina della Gazzetta del Sud, con tanto di foto e disegni.
Da allora, sempre con l’aggiunta di qualche piccolo ritocco, l’articolo è stato pubblicato più volte… su Proposte di Nicotera, su l’Unione di Cosenza, sul Quotidiano della Calabria, su Galatro Terme News…
Il volerlo riproporre ancora una volta, vuole essere il mio piccolo, testardo, contributo allo stimolo della conoscenza e valorizzazione delle pagine più significative del nostro passato, il che, per dirla alla maniera di Guareschi, oltre ad essere istruttivo… è anche molto bello!

 

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