LA DIFESA DELLA SCORREGGIA: UNA POESIA PROFANA DELL’ABATE MARTINO

Da quando mi diletto a scrivere, tengo in una carpetta del mio studio, un bel numero vecchi fogli, appunti, ricerche, ritagli messi insieme casualmente e tenuti in  serbo per momenti in cui, capita a tutti, si è “in secca” di argomenti per scrivere.

Di tanto in tanto li tiro fuori, li stendo disordinatamente sulla scrivania e cerco di trovare lo spunto per qualche “grande” pezzo, di quelli che, almeno in apparenza, non si presentano insignificanti, scontati e banali. Di solito viene fuori poco, raramente mi è capitato di servirmene, ma a volte si fanno delle scoperte, o riscoperte, straordinarie; talvolta per strade impensabili e su argomenti dei quali non si era mai e poi mai pensato di scrivere… anche perché non si parlare sempre di politica, litigi ed intrecci vari, qualche volta bisogna dare spago anche alla più sfrenata fantasia… la libertà di chi scrive non deve avere confini o limitazioni di sorta: in effetti, a chi poteva mai venire in mente di scrivere, niente poco di meno che, “in difesa della scorreggia”?… e non in maniera da doversene vergognare…!

Nei giorni scorsi mi è capitato di ripescare, tra i logori fogli della mia carpetta, una vecchia poesia dell’Abate Antonio Martino (nostro grande ed illustre compaesano) che si è presentata come una paradossale satira, che “solo ad un distratto lettore può apparire eccessiva fino ai limiti della scurrilità…” e il titolo è appunto: “La difesa della scorreggia”.

L’abate Antonio Martino (Galatro 1818-1884), tanto per evidenziare qualche nota per chi non lo conosce, è stato grandissimo nelle “poesie politiche” che rappresentano il nerbo fondamentale di tutta la sua produzione, nelle quali emerge chiaramente tutta la personalità del prete liberale e deluso, quanto “…irrequieto e mordace, insofferente alla servitù e perseguitato perché assertore di libertà anche dal pulpito”: qui emerge la satira spietata rivolta contro coloro che erano ritenuti liberatori (i Piemontesi), ma che una volta giunti al comando dell’Italia si comportarono peggio degli antichi padroni (i Borboni).

L’abate Martino è stato grande anche nelle “poesie sacre”, che rappresentano l’ultima sua produzione, composte poco prima della sua morte: in queste il Poeta non usa il dialetto, come in quasi tutta la sua produzione poetica, perché ora non si rivolge più agli uomini, ma a Dio e deve trovare un linguaggio privo della materialità che aveva caratterizzato le sue bellissime opere “profane”.

Nelle “poesie sacre” Martino arriva ad affermare che tutto quello che aveva scritto nella sua vita era stato inutile; infatti, sostiene di essere arrivato alla convinzione che la vera gloria, per lui, non può esistere sulla terra, perché come ebbe modo di scrivere in una sua celebre poesia, “…lu mundu prima t’alletta e poi si mustra ngratu, è vasu duci ‘ncima e amaru ‘nfundu, è fauzu e tradituri d’ogni latu…”.

Mirabile, nel senso ora descritto, e merita di essere riportato integralmente, il “ritratto” del Poeta del 1879:

Le gelosie d’altrui e i folli amori

in quell’età più perigliosa e cruda,

onde al fuoco s’agghiaccia, e al gel si suda,

cantai, spargendo invan febèi lavori.

 

Ma, delle umane cose, or che i colori

variati non veggio, e scorgo nuda

la verità, né fia chi più m’illuda

l’ultimo addio do a Filli, a Lesbia, a Clori.

             

E a que’ nomi fantastici e bugiardi

di Venere, d’amor, di stral, di face,

mia Musa oggi neppur volge gli sguardi.

 

Gitto il plettro profan, e sol mi piace

Consacrar le mie rime (ahi troppo tardi)

A Dio che rese al cor l’estinta pace.

         L’abate Antonio Martino è stato grande, e particolarmente “pungente”, nelle “poesie profane”, dove si è divertito a satireggiare persone, costumi e, soprattutto, donne, senza alcuna preoccupazione a moderare i termini del linguaggio: il problema non esiste, il suo “spirito libero”, non poteva assolutamente essere limitato da alcuna regola.

La difesa della scorreggia” è una delle “poesie profane” più belle del Martino e se, da una parte, fa ridere per la stravaganza della situazione, dall’altra, non smette di meravigliare e stupire anche il più distratto lettore: lo stesso Martino presenta la poesia come “scritta in occasione che Monsignor Teta di Oppido sospese a Divinis un venerando vecchio Canonico di quella Cattedrale, per aver tirato involontariamente un peto nella presenza di lui”.

Ed il Prof. Piero Ocello, nel suo pregevole libro: “ …di la furca a lu palu”, dove, con tanta fatica e passione, ha raccolto tutte le poesie di Martino, a commento de “La difesa della scorreggia” dice: “La satira dal motivo piuttosto paradossale ed insolito prende il via dal sentimento offeso del Poeta per un provvedimento certamente sproporzionato alla colpa di un vecchio Canonico, sospeso a divinis per essersi lasciato sfuggire, in presenza del Vescovo, un volgare inequivocabile… suono.

Ed è proprio tale esagerazione che suscita lo sdegno del nostro Martino, che non ignora certo il decoro e la compostezza, inneggiando ad uno stato di primitiva bestialità, ma che allo stesso tempo si leva in difesa di un atto naturale così aspramente condannato da ipocriti benpensanti che sembrano apprezzare comportamenti solo formalmente irreprensibili.

Si arriva così al paradosso, alla “difesa” del galateo della natura, contrapposto a quello dei saccentoni: i quali, facendo torto “all’ordini di Deu” hanno inventato regole di comportamento non assurde, ma nelle quali sembra rinchiudersi e limitarsi ogni loro ideale. In questa ottica possiamo accettare, senza scandalizzarci, anche le espressioni più triviali, i paragoni più arditi con cui Martino rivendica la “libertà” naturale accanto alla “libertà” politica.

E l’invito sfacciato a infischiarsene delle regole del galateo ufficiale assume, senza timore di alcun equivoco, il significato di una esortazione al buon senso del popolo, all’equilibrio naturale dove l’armonia tra corpo e spirito non deve essere soverchiata e afflitta da sproporzionati divieti. Queste le motivazioni che reggono e giustificano il sarcasmo e la paradossale ribellione del Poeta”.

Il passo del Prof. Piero Ocello rafforza la mia convinzione alla pubblicazione e divulgazione, di questa, paradossale quanto stupenda,  poesia che in ogni frase riesce, bonariamente, a far sorridere. E senza alcuna vergogna per aver sorriso e senza alcun pentimento, come spesso capita quando la risata è ottenuta con la sollecitazione dei più bassi pettegolezzi e delle più terribili maldicenze. E, soprattutto, senza alcuna villania, ma in una tenera consapevolezza dei limiti della nostra umana misura.

La difesa della scorreggia

Quand’autru canta guerri e capitani,

o pisi chi ‘ndi ficca Sella e Lanza

amuri, o sdegni, o casi supraumani,

la Musa mia difendi (cu crianza)

lu piditu chi fannu li cristiani.

E cu ragiuni: tutti avimu panza;

ognunu mbivi l’acqua e mangia pani

e l’aria si sviluppa in abbondanza:

per cui, s’è necessariu lu cacari

è necessariu cchiù lu piditari.

 

Eppuru si cuntrasta sta ragiuni

medianti l’affettatu Galateu

scrittu avanteri di li saccentuni

mu fannu tortu all’ordini di Ddeu

chi dissi: “Mangia e mbivi, sii patruni,

pidita, caca, piscia bellu meu”.

E Adamu spurvarandu lu trumbuni

tirau nu piditazzu e non fu reu

e li premuna soi si dilataru.

Eva isa l’anca e rumba di lu faru.

 

Lu piditu, lu ghasmu e lu sternutu

su tri fratelli schietti ed innocenti:

si dui su currisposti cu “salutu”

lu piditu pecchì mo di la genti

va cundannatu comu prostitutu

e si rispundi “minchia” nchi si senti?

Rispundi Gatateu chi si saputu,

presentami ragiuni e documenti…

Lu tonu di lu piditu anzituttu

la Musica lu situa a Fa Fauttu.

 

Scusati o di la Casa Monsignuri…

vui siti in curpa di tricentu mali.

Lu piditu pe vui perdiu l’onuri

dovutu comu ad attu naturali;

pe’ vui succedi colichi e doluri

di stomacu, di rini e celebrali,

murroidi, terzani e tanti curi

chi fannu ricchi Medici e Speziali…

 

Diri o lu culu: “via non piditari”

vali tu stessu “prena non figghiari”!

Si grazie a lu Statutu di lu Regnu

godimu libertà ndividuali

e ne’ pe stampa e lingua nc’è ritegnu;

lu nostru Signor Culu liberali,

pecchi non po’ spegari lu sò ngegnu,

giacchè la leggi guarda a tutti uguali?…

 

Canonici, in privatu ed in cunvegnu

rumbati puru ‘ntra la Cattedrali,

ca nudhu sbirru cchiù veni e v’inqueta

servatis servandis di Teta.

Ed a la barva di la suppressioni

pe cui li chiesi e vui siti spogghiati,

cantandu missa, officiu ed orazioni

lu supra cu lu sutta vui accordati:

e si di ciò voliti na lezioni,

li Musici di Maiu avvicinati,

sì, sì, rumbati e senza suggizioni!

 

Lenzola e cazunetti non pensati

ca nc’è sapuni, cinnari e jhumara,

mu mpreca quantu pò la lavandara.

Ma de arte piditandi nu trattatu

mo nci vorria cumpostu a manu a manu.

Eu non ci arrescia debuli e malatu:

vi mandu dhià Don Roccu Gariglianu

chi pe stu ramu sta tantu versatu

chi merita lu postu di decanu.

 

Però sulu vi avissi cunsigghiatu

pe lu decoru di lu deretanu,

a stornu di l’auguri lordi e brutti

diciti  piditandu, “Mu ti f…“.

 Chist’è lu Galateu di la Natura

chi usaru li Patriarchi anticamenti

l’odiernu è na nojusa affettatura

di bellimbusti giuvani saccenti.

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