LA MORTE PONE LA DOMANDA SUL DESTINO PER IL QUALE SIAMO STATI FATTI

Siamo nella settimana in cui si ricordano i defunti, anzi qualcuno ha detto che bisogna “ricordare la morte per restare vivi”: “È importante che la morte ci trovi vivi”. In verità si potrebbe e forse si dovrebbe essere ancora più netti: è essenziale, e non solo importante, che la morte ci trovi vivi. Questo non è affatto scontato. È il primo grande insegnamento che è possibile trarre dalle parole citate: spesso la morte ci trova già morti, vale a dire abbattuti, incattiviti, sfiduciati, ripiegati su sé stessi, pieni di rancore e rabbia, vittime della più opprimente delle delusioni.

La morte è una delle poche cose serie e irrimediabili che restano nel nostro orizzonte di senso sempre più labile, per cui dobbiamo ringraziare chi ci consente di riflettere con dignità. Ricordo le parole di un amico prete di Catania morto qualche anno fa, Don Francesco Ventorino, che ho sentito a Rimini durante l’incontro “La verità è il destino per il quale siamo stati fatti” e del quale mi piace riportare alcuni passaggi, perché ritengo ponga delle domande sul destino di ogni uomo:Ho un ricordo ancora vivo – sono passati quarant’anni – dell’urlo di mia madre di fronte al cadavere di mia sorella, morta improvvisamente perché aveva voluto portare avanti una gravidanza a rischio: «Dottore, perché è morta mia figlia?». Il medico non ha capito il significato della domanda e le ha spiegato come era morta: per un embolo. Ma mia madre, una donna del popolo e quasi analfabeta, poneva un’altra domanda: «Perché una donna muore a trenta anni, per dare la vita ad un figlio che vive sette giorni e poi muore a sua volta». Era la domanda sul destino della vita, della vita di sua figlia, di quella del figlio di sua figlia e di ogni uomo. Era una domanda che nasceva da quell’esigenza di cui è costituito il cuore di ogni uomo”. 

Certo a questo punto, ogni persona seria, soprattutto seria con sé stessa, non può fare a meno di porsi questa domanda: “Ma la vita ha un destino?”, con la consapevolezza che la domanda sul destino della vita costituisce il cuore di ogni uomo.

A questo interrogativo, nell’incontro di Rimini, don Ciccio Ventorino ha così continuato: “Negli ultimi anni alcuni intellettuali in Italia si sono affaticati nel dimostrare che questa, la domanda di mia madre, è una domanda senza senso. L’uomo non sarebbe altro che un animale prodottosi nel corso di un’evoluzione che non risponde ad alcun disegno divino, né ad alcuna finalità prestabilita. Il ruolo della specie cui apparteniamo non sarebbe superiore a quello delle api o delle formiche o dei passeri, cioè produrre e riprodursi.

A questa domanda, dunque, non ci sarebbe risposta e quindi non avrebbe senso neanche porsela. E così sono stati liquidati in maniera semplicistica i più grandi pensatori e poeti di tutta l’umanità considerati come degli imbecilli che per tutta la vita si sono cimentati con una domanda che sarebbe addirittura contro la ragione. … Il nichilismo, cioè la negazione che ci sia una verità e un destino della realtà, è l’orizzonte teorico in cui si colloca e si giustifica la nostra “civiltà dei consumi”, perché se la realtà non ha una sua verità e neanche l’uomo possiede un suo destino, il consumare, assecondando l’istinto del benessere, è l’unico rapporto che l’uomo può stabilire con il reale. Da quest’atteggiamento, che vale per ogni rapporto, nasce quella concezione per la quale le cose, il denaro, il sesso, l’amore e perfino la vita propria e altrui diventano una proprietà gestita secondo il modello dell’“usa e getta”.

La descrizione più efficace di questa esperienza si ha nella grande opera di René Grousset, Bilancio della Storia, dove, concludendo il suo bilancio sintetico della storia dell’umanità afferma: «Quanto alla storia umana, quale storico, giudicando dall’alto, oserà guardarla senza spavento?» E ci trasmette il suo inquietante interrogativo: «Ma se, al termine di tanta angoscia, non vi è effettivamente che la tomba?. È allora che l’ultimo uomo, nell’ultima sera dell’umanità, senza speranza – lui – di resurrezione, potrà emettere a sua volta il grido più tragico che abbia mai attraversato i secoli: “Elì, Elì, lemà sabactàni”? A questo grido noi cristiani sappiamo la risposta che, da tutta l’eternità, aveva dato l’Eterno. Sappiamo che il martirio dell’Uomo-Dio era solo per ricondurlo alla destra del Padre e, con lui, tutta l’umanità riscattata da lui. Sappiamo e abbiamo appena costatato che al di fuori della soluzione cristiana … ormai non ve n’è più altra, intendo soluzione accettabile per la ragione e per il cuore».

Dobbiamo riconoscere, infatti, che solo in Cristo si manifesta pienamente il destino dell’uomo e della storia in modo totalmente corrispondente, e quindi accettabile, alla ragione e al cuore. Egli solo è la parola definitiva sulla vita e sulla morte,

sul significato del mondo e della storia, la risposta a quella esigenza profonda di verità e di giustizia che costituisce il cuore dell’uomo.

Solo nell’avvenimento dell’incontro con Lui – diceva il Benedetto XVI a Verona – può rinascere la «grande domanda» sull’origine e il destino dell’universo, sul Logos creatore e diventa «di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene».

Le conclusioni dell’intervento di don Ciccio vale la pena  riprenderle integralmente: “Infatti, è solo di fronte alla risposta che si riapre e si chiarifica la domanda. Solo nel Volto del Crocifisso appare l’autentica e credibile bellezza, solo nel Crocifisso c’è, infatti, un destino o un Dio credibile anche da mia madre. A questa bellezza, infatti, dopo aver lottato una vita intera con il Mistero come Giacobbe con l’Angelo, essa, sorridente, si è affidata nell’atto della sua morte. A tutti quelli che venivano a visitarla, quando era già alla fine, chiedeva: «Tu verrai alla mia festa?». Alludeva al suo funerale”.

In un suo messaggio Ratzinger ebbe a dire: «Nella passione di Cristo … l’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine…  Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine”…  E ancora: «Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria luce».

Della bellezza di Cristo si fa esperienza nella Chiesa, cioè nel mondo bello creato dalla fede e dalla luce che risplende sul volto dei Santi.

Ne sa qualcosa chi questa luce è riuscito a vederla nel volto delle sante persone che ci sono passate, e ci sono ancora, accanto ogni giorno.

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