L’ESTATE, LE FESTE… E SAN PANTALEONE

Una delle più feconde iniziative del potere politico locale è stata, negli ultimi anni, quella di mettersi a gestire i momenti di spettacolo estivi e con essi, la voglia di dimenticare, di distrarsi, di non pensare a nulla. Siamo assediati dalle feste, prosperano in maniera sempre più strepitosa: l’estate scorsa, in un paese non molto lontano da Nicotera, ne ho contate sette nello spazio di ventotto giorni. Tutte uguali, se si escludono il colore politico dominante ed alcune sfumature nella scelta dei cantanti, del look esterno e dei vari oratori per le feste dì partito.

Snobbate te ritualità cicliche della civiltà contadina, la “festa” è diventata padrona e condottiera del nostro tempo feriale: festa popolare, festa dell’Unità, festa dell’Amicizia o dell’Avanti, festa del Comune o della Provincia, della Regione o del Quartiere, etc. Ma in tutte queste feste, sembra che la parola d’ordine sia: dimenticare. Dimenticare i problemi, dimenticare le contraddizioni, dimenticare le cose che non vanno. Invece la festa che c’è nel cuore dell’uomo è una festa fatta per ricordare: ricordare chi è e dove sta andando. È questa la domanda che c’è nel cuore di ogni uomo, indipendentemente dal fatto che è laureato o non è mai andato a scuola, che ha 16 anni oppure 70… La festa di cui voglio scrivere io è la festa che vuole arrivare a questa domanda: è la festa più difficile da realizzare, più faticosa, ma è una festa dove c’è un posto per ognuno ed un lavoro per tutti, è la festa della vita.

I dirigenti della cosiddetta “cultura di massa”, hanno capito una cosa fondamentale: la cosa più importante, secondo loro, non è tanto il controllo delle istituzioni tradizionalmente preposte all’educazione, ma la stessa gestione della vasta area del tempo libero: ciò che più infastidisce, e fa pensare, è la presenza sempre più totalizzante e spadroneggiante delle Amministrazioni pubbliche. La festa, gravata e snaturata da tale presenza, invece di essere momento di espressione delle tensioni e dei desideri della gente, diventa momento celebrativo di un tipo di cultura in grado di generare vaste aree di consenso.

È sempre più sconfortante e raccapricciante girare per i paesi della Calabria e vedere che, ormai, alle feste patronali, alle sagre paesane, si sono totalmente sostituite anonime e consumistiche manifestazioni a gestione pubblica dai prevedibilissimi titoli, altrettanto anonimi e al di fuori della tradizione del popolo, concepite come momento di evasione e di sfogo senza senso e senza direzioni. Queste manifestazioni non sono momenti in cui ci si riunisce per gioire di un avvenimento che coinvolge tutti, non sono come uno che guarda la luna piena e si ricorda di quando la vide altre volte, e ripensa alla vita, alla morte, al sole, al suo destino, a quello della sua donna, dei suoi figli, dei suoi amici. Mancando tutto questo non c’è festa. o per lo meno, non è una vera festa.

Il sospetto che sta diventando sempre più certezza, è che la gestione ed il controllo delle occasioni estive di festa, diventa una tappa verso l’imposizione violenta e prevaricante di una cultura sempre più standardizzata, Infatti, nella gran parte dei casi, esse sono il regno dell’approssimazione e dell’occasionalità un pò spettacolare ed un pò effimera, in cui l’apparenza e l’allegria forzata prendono il sopravvento sulle tensioni, sulle domande e sui valori che caratterizzano qualsiasi cultura. Ma allora le feste sono tutte inutili, da abolire totalmente? È impossibile, oggi, far festa e viverla autenticamente? Chi scrive crede di no, anzi è convinto che ancora oggi si possa fare festa per non dimenticare, come è proprio della tradizione e della cultura del popolo cristiano.

La festa, quella vera, non si annuncia sui muri, si sa. Tutto Limbadi sa, ad esempio, che il 27 luglio c’è la festa di San Pantaleone. Chi lo dice ai limbadesi? Nessuno: lo sanno e basta. Lo sanno perché la prima caratteristica della festa è quella dì esserci; come la luna che un pò non c’è e poi c’è di nuovo, bella tonda. Ma anche quando non si vede c’è lo stesso. Fare una festa vuol dire, innanzitutto, sapere che c’è, anche quando tutto sembra buio. Saperlo sempre, pensarla, tenersi pronti come all’arrivo dello sposo, come i contadini sanno, d’inverno, che a luglio ci sarà da mietere. In altre parole, da che mondo è mondo, la festa è sempre legata ad una apparizione, ad un evento, al ricordo di un fatto di cui ciascuno si ricorda così come si ricorda di sè.

La festa di San Pantaleone a Limbadi è una festa spontanea, semplice e vera, che ha la sua radice più profonda nei secoli e nella tradizione più intima e più cara al popolo limbadese. Questa festa non ha la durata di un giorno perché è carica di mille significati: non è altro che l’esperienza della fede, rivissuta così come è stata tramandata da innumerevoli generazioni, dentro un patrimonio culturale nato dai riti imparati nella Chiesa, su cui appunto si sono modellati i gesti, il linguaggio, le feste ed anche il lavoro. Provate a leggere la storia di Limbadi a prescindere dalla devozione e dal significato che ha avuto nei secoli la figura e la festa di San Pantaleone? Sicuramente verrà fuori qualcosa di monco.

Insomma vale la pena di fare festa per ricordarci di noi stessi e annegare la nostra coscienza. La festa è, necessariamente, realizzata da quanti vi partecipano e deve dare spazio alla creatività di tutti, anche di chi giunge casualmente a parteciparvi; ha lo stesso gusto per tutti, ha un gusto unico, o se si vuole, ha il gusto dell’unità. Nasce dalla convivenza in un ambiente, ne conosce la storia, le persone ed i problemi ed ha senso solo se è l’occasione per riscoprire il significato profondo della vita di ogni giorno. Per poter parlare, veramente, di festa occorre, in primo luogo, che ci sia realmente qualcuno che la vive, anche quando la luna non è piena o il grano non biondeggia ancora, che ne ha nostalgia, che l’aspetta per ricordare che la vita ci è stata realmente regalata.

Se, invece, è festa solo perché c’è un complesso, più o meno conosciuto, che suona, o perché si mangia in piedi con le mani, o perché c’è un raduno con comizio e tante bandierine rosse, rosa, verdi, bianche, ma nessuno ascolta, allora è meglio lasciare perdere, anzi, molto meglio eliminare iniziative del genere.

In simili situazioni è preferibile, ma soprattutto molto più serio, “fare la festa” alle feste…

Questo articolo è stato pubblicato su Proposte, luglio-agosto 1988. Posso ben dire che oggi ha una sua “attualità” di gran lunga superiore al momento in cui è stato pubblicato.

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