NEI VERSI DI ROCCO POLISTENA IL GRIDO DI UNA VOCE CHE CERCA DIO

Diceva un vecchio filosofo che “le parole esprimono i patimenti dell’anima”. Eppure ci sono parole che non sembrano rientrare in questa definizione, perché intrattengono con l’anima un rapporto molto più complesso, molto meno definibile: sono le parole dei poeti, sono le parole di chi non parla a proprio nome perché, semplicemente, presta la propria voce, ed il suo corpo, ad un “altro” che silenziosamente si trova nella profondità insondabile del suo essere, e sente che deve restituire alla terra e agli uomini le vibrazioni che la sua anima ha ricevuto e lui deve decifrarle, purificarle e renderle leggibili: “Anelavo / tra le piaghe dischiuse / dell’intima mia boscaglia / rotolando senza sosta, / azzoppato dalla nostalgia, / un calvario deserto. / Nudo / incalzavo tra una corrente e l’altra / del mio fiume sentimentale”.

Nel poema di Rocco Polistena “Scorro – Il mio fiume sentimentale” questa apertura di spazi inconsueti è come la tempesta scatenata delle acque del Niagara, dovuta ad un misto di speranza e di nostalgia (talvolta paura o tristezza!) che non è solo del suo autore, ma di tutta una cultura che “non scorre”, bloccata nel dolore e nella grandezza, del tentativo di superare, andare “oltre” le parole dello spirito che le detta. In altri termini il “grido” che c’è dentro i versi di Rocco Polistena ha la sua massima “esplosione” nel desiderio di conoscere la vita “vera” dalla quale possono unicamente, e solamente, sgorgare le acque della verità, quasi come testimonianza ultima di un “esilio terreno” che, a tratti pare irrimediabile: una verità dove la vera dimensione dello “scorrere dello spirito” non sono le cascate del Niagara, quelle diceva Guareschi sono un fenomeno da baraccone. La vera dimensione del nostro scorrere si raggiunge solo quando raggiungiamo ciò che il nostro cuore desidera, così come l’acqua che solo quando è orizzontale, nel piano, conserva tutta la sua naturale dimensione: “Mi fracassavo il cranio di cecità, / canticchiavo alla notte. / Nascondevo al mio essere / quella stessa voce, / volevo essere cuore. / M’imbastivano buoni sentimenti. / Aveva l’anima della mia anima / quel fiume, / i sospiri / pronunciava il mio nome, / allagava il mio cuore appassionato.”

Bastano questi pochi versi per comprendere che a costituire il poeta non è la capacità di leggere il reale e di elaborarlo in immagini coerenti (sotto questo profilo con i versi di Rocco Polistena siamo molto distanti!) quanto l’obbedienza ad un grido che ha dentro, al quale offre i suoi versi nella pazienza dell’attesa di ciò che il cuore desidera. Eppure c’è anche qualche cosa di misteriosamente seducente in pagine tanto fuori dai tempi nostri, nelle quali manca qualsiasi riferimento alla civiltà contemporanea e alla sue “conquiste”, quelle tecnologiche come quelle storiche.

Nei versi di Rocco Polistena, cioè, non si trova traccia né di automobili, né di mezzi di comunicazione, tanto meno di riferimenti alla “politica dei nostri giorni”: i suoi versi potrebbero sembrare scritti migliaia di anni fa anziché nei primi decenni del 2000. Proprio per questo non ha molto senso ricercare fonti di ispirazione e parentele letterarie, che rischierebbero di risultare mere coincidenze. Il Polistena si muove in un universo letterario ed esistenziale perfettamente autonomo, da lui stesso creato ed eretto attorno a sé come i muri di un tempio pagano proteggevano il fuoco sacro, intangibile ai comuni mortali: “Mi attraversa un fiume / orgoglioso di mille ricordi. / Ha sete il mio cuore / di queste acque benedette / contaminate da tramonti anneriti, / ma albe solitarie / voleranno domani / balzando tra i cespugli”.

Se nel poema di Rocco Polistena scorgiamo questo, allora è anche vero che il suo grido (o scorrere come vogliamo chiamarlo!) si unisce al coro dei poeti che, stupiti per la propria capacità di rintracciare nella selva della vita dei barlumi di verità mai colti da altri, magari nell’attesa di conoscere meglio il senso, o il volto!, di colui al quale si sta prestando il corpo e la voce. Per questo nell’accostarci ai suoi versi, restiamo dolcemente stupiti nell’avere la possibilità di sentire, se non la risposta alla domanda fondamentale che ci portiamo dentro, almeno l’inizio di un grido, una invocazione che ci svela l’azzurro del cielo e ce lo indichi. Ci indichi il dolore, perché il poeta sa che nessuna voce parlerà in vece sua, sa bene che il cielo cui lui chiede una parola è muto con lui, sa che può espandersi nell’azzurro, ma circospetto e smarrito come il fumo, non teso e chiaro come la vampa del fuoco. E ci indichi anche la grandezza, perché inesauribile è il cammino di chi percorre la terra alla ricerca di quella voce, a dissotterrare quella prima e sorgiva parola, con il cuore teso alla terra della nascita e del riposo.

Dello “scorrere” del fiume dell’autore, il lettore può cogliere la dolcezza della musica o la profondità di alcune prospettive per la vita in singoli frammenti, così come può cogliere il dolore del poeta per non poter dare altro che quelli. Questo cogliere nel testo la distanza fra quanto il poeta dice e quanto resta da dire, mi pare il modo più adeguato per ascoltare il grido di Rocco Polistena, che costituisce la chiave di volta per comprendere il suo intimo: un grido come espressione più adeguata all’uomo separato dalla sua origine, per attenuare la distanza dalla pace del cuore che cerca disperatamente… non per niente in ogni pagina del poema tutto parla della ricerca di un “suo” Dio, magari con una domanda profonda alla quale non sa rispondere.

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