RIUSCITISSIMO CONVEGNO ALLE TERME DI GALATRO SU “CALABRIA, TERRA DI MIGRANTI E IMMIGRATI”.

Nella splendida cornice delle Terme di Galatro, lo scorso 29 agosto, gli scrittori Gioacchino Criaco e Mimmo Gangemi hanno conversato con il giudice Antonio Salvati sul tema: “Calabria, terra di migranti e di immigrati”. Dopo i saluti istituzionali di Sandro Sorbara, Sindaco di Galatro; di Domenico Lione, Amministratore Unico Terme di Galatro Srl; di Maria Teresa Santoro, Presidente Soroptmist Palmi. Ha introdotto e coordinato l’incontro Pasquale Simari. Salvati, Criaco e Gangemi sono degli intellettuali che in tante loro opere hanno sempre posto l’attenzione sui migranti e le migrazioni.

Antonio Salvati, Magistrato dal 1999, ha al suo attivo diverse pubblicazioni e dal 2014 ha ideato il Festival Nazionale di Diritto e Letteratura “Città di Palmi”. Il suo ultimo libro, Pentcho, ispirato da una storia vera, racconta attraverso la voce dei protagonisti la fuga, lungo il Danubio, di 400 ebrei di diverse nazionalità da una Bratislava ormai rassegnata all’invasione nazista. Con uno scalcagnato battello dal nome improbabile, Pentcho, dopo aver percorso l’intero corso del fiume puntano a raggiungere addirittura la Palestina. Infinite peripezie li condurranno invece in Calabria, a Ferramonti, il principale campo di concentramento per ebrei stranieri d’Italia. 

Mimmo Gangemi, nato nel 1950 a Santa Cristina d’Aspromonte, alterna la professione di ingegnere a quella di giornalista (collabora con «La Stampa») e di scrittore. Nel libro “Il Popolo di mezzo” racconta, in un’America prodiga e crudele, una grande saga su ciò che siamo stati. E abbiamo dimenticato. “Negri”, così sprezzavano quanti agli inizi del Novecento giungevano in America dall’Italia. Anche perché “tanto bianchi non apparivano”, erano il popolo di mezzo, sradicato dalle origini per cercare lì un futuro migliore.

Gioacchino Criaco è nato ad Africo. Con il libro “Il custode delle parole” ha descritto una storia di identità e radici così forti da sfidare il futuro, richiamandoci alla responsabilità di prenderci cura di ciò a cui sentiamo di appartenere: un amore, una montagna, una storia… una storia millenaria che ha forgiato le parole intingendole nel cuore, nella testa, nella pancia, nel miele e nel sale, nel sangue eroico e in quello codardo, nella punta delle spade e nel taglio delle zappe.

Il punto di convergenza dei relatori su “Calabria, terra di migranti e immigrati” è stato l’evidenziare come chi migra supera e ridefinisce confini ai quali ci eravamo abituati, portando con sé storie legate ad un luogo e, allo stesso tempo, in continuo movimento e definizione: aprire i libri delle migrazioni è atto non facile e, oggi, forse sempre meno richiesto: “migranti”, “rifugiati”, “clandestini” sono alcune delle etichette di cui siamo dotati per delegare, evitare, o addirittura rifiutare il problema del conoscere e incontrare l’altro: nonostante il Novecento sia stato più di ogni altro il secolo delle migrazioni e nonostante viviamo in un mondo in continuo movimento, l’Europa di oggi sembra non aver imparato dal suo passato. È come se i migranti non fossero persone, ma numeri o, quando va bene, cittadini di terza categoria… come per tanto tempo siamo stati considerati noi meridionali. Di fronte a questo abbiamo ben poco da dire, e quel poco è da ricercare nell’influenza dei “cattivi maestri” che negli anni, animati da un esasperato livore antimeridionale, sulla base del presupposto che Sud=Mafia, hanno innescato un processo, falso e menzognero, per buona parte degli abitanti il Meridione d’Italia.

Negli anni passati, anche da parte di intellettuali che avevano a disposizione le più grandi testate giornalistiche del nostro paese, abbiamo visto attaccata, genericamente, buona parte della stampa del Sud, definita “complice della malavita e arretrata di trenta anni rispetto a quella del Centro-Nord” e abbiamo avuto anche modo di leggere  che “L’Italia sia un Paese di second’ordine, lo dimostra il fatto che non ha saputo incivilire il Meridione…”: confondere il mancato sviluppo economico del Sud, e le sue inefficienze di carattere burocratico, con la “civiltà” è un giudizio storico di esile spessore. Che cosa si può dire a chi pretende “d’incivilire” la Magna Grecia, la terra di Archimede e di Pitagora, di Empedocle e di Stesicoro, di Sciascia e di Alvaro, di Pirandello e di Telesio… cosa possiamo dire a chi ancora oggi si sforza per dire che mafia e Meridione sono indissolubilmente legati. Lo sono, forse, dal punto di vista storico, ma oggi è chiaro a tutti che la mafia ha finito di essere “cosa nostra”, dei meridionali in genere, anzi ormai è diventata anche patrimonio del Nord e della sua avidità mercantilistica e del suo culto del guadagno ad ogni costo. Non possiamo far finta di non accorgerci che “cosa nostra” non è più “nostra” ma, oggi più che mai, appartiene a chi ha predicato e praticato l’ossequio del potere ed il compromesso ed ha, in maniera cosciente o meno, negato il primato della coscienza sull’interesse e sul profitto.

Ecco l’importanza di un confronto serio, non condizionato da posizioni politiche da difendere, come questo tenuto a Galatro, dove in un dialogo serio si è cercato di  parlare dell’uomo del Sud senza azzardare immagini o linee di pensiero imprecise, indefinite, a volte del tutto sfuocate, su ciò che ha costruito, o non è riuscito a costruire fino ad oggi, tentando di descrivere l’inferno che l’uomo del Sud ha sperimentato, forse più di ogni altro in Italia: cioè cosa significa essere senza Patria, senza un focolare, disperso in tutti i Continenti della terra e, nella grandissima parte dei casi, non contento né complice, ma devastato dalla piaga della mafia e della ndrangheta. Ma, nonostante tutto, quest’uomo rimane attaccato ai valori della vita: l’amicizia e l’ospitalità, l’accoglienza anche nelle case più povere; la saggezza profonda nelle parole e nel pensiero, anche negli uomini più umili; la pazienza impressionante con la quale ognuno sa attendere la propria storia. Sicuramente esistono anche aspetti negativi o carenti, certamente diversi da quelli descritti dalla fredda ed estranea denuncia dei denigratori di turno: penso alla mancanza di una professionalità che determina una grave incapacità ad organizzare nuove forme di lavoro, e l’eccesso di campanilismo e di caparbietà che non consentono le forme più elementari di aggregazione ai fini imprenditoriali e, non ultima, l’estrema compattezza del clan familiare che determina ancora oggi in modo rigido le dinamiche di ogni suo componente.

Affrontare il problema del Mezzogiorno in questi termini, è più serio e più incidente degli attacchi antistorici e paranoici dei vari “maestri”  di turno, perché non possiamo permettere che la nostra terra venga ridotta all’immagine della mafia e della clientela: la nostra Calabria, in particolare, terra di frontiera tra il Mediterraneo e l’Europa, è ancora un luogo dove, al di là delle farneticazioni di tanti disinformati informatori, esiste ancora una grande umanità, tanto viva ed incisiva, quanto, per molti, inattesa e sconosciuta, nonostante le devastazioni operate a tutti i livelli della vita sociale non solo dalle organizzazioni criminali.

Ma questa è una realtà che, purtroppo, oggi non fa notizia…

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