SULL’ABATE GIOVANNI CONIA

“…‘U dissi puru ‘abbati Conia, ca cu’ sett’oru non si cugghiunija…”: è stata questa frase, sentita per caso una sera di molti anni addietro nella sede di Proposte a Nicotera, che mi ha spinto ad interessarmi e rivedere la produzione letteraria e la figura dell’abate Giovanni Conia.

Giovanni Conia nacque a Galatro nel 1752, da Francesco e da Rosa Siciliano, per come si ricava dall’atto di morte, anche se il canonico Giuseppe Pignataro ha scritto che “non è possibile indicare lo anno di nascita di lui perchè nel verbale di morte accertata, è segnato con una cifra globalmente espresso”.

Quanto al luogo di nascita è sempre il canonico Pignataro che scrive “nella domanda di ammissione al concorso di Zungri, egli stesso si dice di Galatro”.

Primogenito di una famiglia di agiati contadini, morì ad Oppido nel 1839, dove era arrivato nella primavera del 1826, alla venerabile età di 87 anni, e fu sotterrato nella Chiesa del Purgatorio, senza neanche il ricordo di una lapide. In seguito furono disperse pure le ossa.

Molte sono le questioni sollevate dalle incerte notizie che si hanno intorno alla sua vita, ma proviamo a domandarci lo stesso “chi era l’abate Giovanni Conia?

Da molti viene descritto come organista prestigioso, poeta, maestro del bel canto, cerimoniere ecclesiastico, oratore sottile e teologo; infatti, grazie ai suoi meriti di teologo, di oratore, di umanista, fu chiamato a par parte dell’Accademia Florimontana di Monteleone, ed il principe Filangelo Vibonese, al secolo don Raffaele Potenza, che ne era il fondatore, lo accolse con il nome di Florisbo Elidonio.

Giovanni Conia viene ordinato sacerdote nel dicembre del 1777 dal Vescovo di Nicotera, al quale era stato presentato dal Vicario Generale di Mileto Francesco Lupo, e non resta in Calabria, ma si trasferisce a Roma dove continua a dare prova del suo straordinario ingegno: segnalato per la sua dottrina e per la sua condotta, venne nominato predicatore apostolico e poté parlare anche alla presenza del Papa nella Cappella Sistina.

Don Rocco Zerbi nel necrologio di Giovanni Conia afferma che questi era “d’intemerati costumi e menò vita illibata. Religioso senza ostentazione, virtuoso senza fasto, attivo senza consumo di forza, amico senza doppiezza”.

Ma, quando ormai si trattava di cogliere il frutto dei suoi meriti, Giovanni Conia abbandonò Roma. “Crisi religiosa o paura di perdersi?” si domanda il canonico Pignataro: “Si direbbe che sull’animo del Conia aveva preso il detto ascetic: amo nesciri et pro nihilo reputari. Limbadi, Orsigliadi, Caridà, Zungri: “Paesi microscopici e remoti nei quali le cose e gli uomini diventano natura. Ma tra queste cose e questi uomini gli asceti e gli artisti avvertono potente la voce di Dio”.

Fu anche arciprete della Chiesa di Santa Maria degli Angeli e di San Giorgio a Laureana di Borrello e nel mese di maggio del 1826 entrò a far parte del Capitolo di Oppido.

Oratore di eccelse virtù, salì i migliori pulpiti, percorse in lungo ed in largo la Calabria reggina e parte del catanzarese per tenere panegirici, prediche quaresimali, orazioni funebri: il favore popolare lo assisteva, si racconta che ascoltare un suo panegirico era uno scialo di idee, di affetti e di entusiasmo. I nobili se lo contendevano quale precettore dei loro figli consapevoli di essere in presenza non di un maestro solamente, ma di un personaggio dei tempi mitologici.

Una delle sue poesie più famose, la Canzone faceta, rende una cosa cara il peregrinare di Conia, per l’equilibrio espressivo di sentiment e di azione. Si ride di gusto per le situazioni tragicomiche “il De Sanctis recitò a memoria lo squarcio della Canzone faceta ove gioca la sua parte un asino”. Anche se lo scorso del Conia, per quanto raccontato nella Canzone faceta fu troppo e cone dice il Pignataro “E il Conia crepava di disappunto. Il passaggio da Tresilico gli aveva sconbussolato il sangue: per un tanto palafreniere essere accolto dagli sberleffi e dale risate delle donne incuriosite moltiplicava la vergogna”.

E se il Conia, come in tanti hanno scritto, si è sempre prefisso di non tediare gli amici lettori, proprio la lettura della “Canzone faceta” testimonia che ci è riuscito in pieno:

Pistatimi sta testa: / cu tantu chi campai,

ancora no mparai / la Santa Cruci.

‘Ncignai di li primi anni / pemmu ricivu ‘mbiti;

e mai ‘nci furu liti / pe la juta.

Ma poi pe’ la tornata / ognunu rifriddava,

ed eu spessu ‘ncappava / a billi balli.

Eu currijai lu mundu, / pruppiti non dassai:

festa non c’era mai / senza di mia. 

 Mettianu tanti mpegni: / eu mi vidìa pregari

mu mi ponnu scippari / na palora.

 E quandu era li jornu / schioppava di bon’ura

bona cavarcatura, /e bona scorta.

 Mi vidìa ricivutu / cu garbu, ed allegrizza,

cu pompa, e cu grandizza / ed in trionfu.

 Ma poi pe la tornata  / cavaju non si ahhiava

la scorta si ammucciava, / pemmu scappa.

 Partivi quarchi vota / sulu ntra li timpani.

Cu nu ciucciu arrahhuni, / e seja sfatta.

 Eu li sapìa sti cosi: / ma mò no lu cridìa

ca di sta furbarìa / nc’era bisognu.

 Quantu era mail u viaggiu? / Di quattru strancalati

e pe sti quattru ancati / fari mbrogghi!

 Si nc’era trenta migghia, / la bestia rifujava:

pacenzia! la scansava / lu Patruni.

 Ma si potìa spagnari, / c’avìa pemmu nci scadi?

D’Oppitu a Zurgunadi / puru cunta?

 Eu non cercai cavaju; / nu ciucciu mi vastau:

e bonu lu mandau / lu bonu amicu.

 Ma cui potìa pensari, / ca subitu arrivatu,

si l’avarria ammucciatu / ma lu scansa?

 Nu ciucciu di cent’anni, / e sfilettatu, e stortu,

ed orbu, e menzu mortu / mi fu datu.

 Jivi pemmu cavarcu, / di primu si arrasau;

appressu si ncrinau /parìa ca figghia.

 E chisti cumprimenti / comu mi li apsettava?

Sapìa ca si spassava / nu omu bonu?

 Daveru? Si nu amicu / sti chiacchiari sa fari:

mi fa sbituperari / pe la via.

 Li fimmani a Trisilicu / hhiaccavanu di arrisi:

tuttu chiju pajisi / appi lu spassu.

 E mina… ed irri… ed arri! /D’arretu unu minava:

Bonsignuri aspettava, / ed eu pungìa.

 Chi pungeri, e minari?… / Cercai mu mi ndi calu:

non facìa tantu malu, / e no lu fici.

 Vinnimu a lu Pileri. / Eccu ca si ndi veni

Pupa cu Fragumeni…/ Auh maru mia!

 Cui li potìa teniri? Li chiacchiari! gridati!

Li frischj! li arrisati!/ Ed eu nguttava.

 Si lu ajutaru ncoju /cu l’autri dui garzuni,

ed eu lu tirrinchiuni / mi frustava.

 Si fici cu sta birba / bonu pezzu di via:

eu ja supra parìa / l’Asu di coppi.

 Ma poi a li primi casi /m’àpparu di dassari:

non cumbenìa cchiù stari, / e si ndi jiru.

 Si nd’addunau lu ciucciu, / ca nuju nci fa guerra:

mi minestrau ja nterra, / e si curcau.

Ebbiva lu bon’omu! / Nu vecchiu d’ottant’anni

si tratta cu sti nganni / di lu amicu!

 E sà ca sti dinocchia /scruscinu pe vecchizza,

e pe la debulizza / fannu cichiti.

 Bomprudu mu nci faci: / Perdunu nci ndi accordu:

vorrìa mu mi lu scordu, / ma non pozzu.

 L’abate Conia ha disseminato per ogni dove poesie in dialetto calabro ed in volgare, sollecitategli a destra ed a manca, al suo passaggio o durante il suo soggiorno, stante la conoscenza che si aveva del suo poetare.

Non a caso le poesie del Conia si presentano come modello di lingua popolare viva, poiché in esse troviamo ritratte e trafuse mirabilmente, le locuzioni speciali, la potenza espressiva del nostro vernacolo, la semplicità, il brio spassoso, l’arguzia fine, l’ironia mordace, i sottintesi tanto significativi; infatti, le vicende di una gatta che rubava i pesci e li portava al suo padrone, di un asino o di un cognetto di alici, non potevano che esprimersi che nella semplicità e familiarità della lingua parlata ogni giorno… il dialetto!

I conoscitori dei nostri dialetti, riconoscono che il Conia considerava il nostro dialetto una vera e propria lingua, e per la bellezza dei suoi versi lo considerano “un antesignano del rinnovamento letterario”.

C’è stato anche chi ha sostenuto che “quello che Dante ha rappresentato per la lingua italiana, Giovanni Conia lo ha rappresentato per la lingua calabra”.

Cesare Lombroso per mostrare l’eccellenza del dialetto calabrese e l’arte dei suoi poeti, trascrisse alcune versi del Conia, nei quali ha riconosciuto una “stupenda e vera poesia, tanto più che riassume la storia ed i pregi del calabrese vernacolo”.

Nonostante tutto questo, ancora oggi, molte notizie sulla vita di Giovanni Conia rimangono incerte, anche se ci sono in giro delle ottime pubblicazioni.

La prima è dello stesso Conia e porta come titolo: “Saggio dell’energia, semplicità, ed espressione della lingua calabra nelle poesie di Giovanni Conia” è dedicata al Signor D. Nicola Santangelo, Segretario di Stato e Ministro degli affari interni nel Regno delle Due Sicilie ed è stata pubblicata dai Tipografi Vescovili di Napoli nel 1834.

Un’altra edizione dal titolo: “Giovanni Conia – Poesie complete”, a cura di Pasquale Creazzo, è stata pubblicata a Reggio Calabria presso la Società editrice reggina nel 1929.

Altra pregevole pubblicazione del 1980, edizioni Parallelo 38, “L’abate Giovanni Conia, Poeta dialettale calabrese – Testimonianze e poesie” del prof. Raffaele Sergio, il quale è anche l’autore del busto in bronzo di Giovanni Conia che si trova nel piazzale antistante il Municipio di Galatro.

Sempre nel 1980, sotto il titolo “Poesie calabre del Canonico Conia” mons. Giuseppe Pignataro ha curato e presentato la ristampa dell’edizione originale del 1834.

Il buon umore, la schiettezza e spontaneità che animano le poesie dell’abate Conia hanno, da sempre, affascinato i più svariati tipi di lettori e, mi auguro che questo fascino coinvolga anche chi leggerà questo mio articolo.

Se sarà così, la ricerca potrà ancora continuare…

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