L’ABATE  MARTINO: TRA SACRO E PROFANO

Perché negarlo… la simpatia con cui è stato accolto il mio precedente articolo sull’Abate Antonio Martino, da parte di molti lettori, che in maniera privata mi hanno manifestato il loro apprezzamento, mi ha sollevato, e rallegrato, per diversi motivi.

Un primo, e importante, motivo è quello della piacevole sorpresa con la quale è stato accolto uno scritto su Antonio Martino “non politico”.

Certamente è sempre stato rilevante l’aspetto che ha messo in risalto l’Abate Martino impegnato, direttamente e non solo con la sua produzione letteraria, nella politica del tempo: liberale convinto, meridionalista concreto, quasi “profeta” di quello che sarebbe successo nel futuro nella nostra Nazione.

Ma l’Abate Martino non è stato solo questo, anche se, nella quasi totalità degli articoli che lo riguardano, l’aspetto politico è la sola dimensione nella quale è stato preso in seria considerazione.

Per fortuna, anche se in tanti hanno evidenziato come in Martino “tutto è politica”, c’è da ritenere che una rilettura scevra da condizionamenti e libera dal cliché imposto alla sua opera letteraria, evidenzia come nella totalità della produzione dell’Abate Martino si percepisce in maniera chiarissima che, grazie a Dio, “la politica non è tutto!”.

Un secondo motivo, e non ultimo, che mi da non poca soddisfazione nello scrivere dell’Abate Martino, parte dalla coscienza dell’importanza della valorizzazione della “cultura” che è nata e maturata nei nostri paesi, certamente non “subalterna” a quella, da molti, presentata come “ufficiale”. Più di una volta mi sono chiesto dell’importanza dello scrivere dei “luoghi e delle persone”, punti di riferimento della mia “educazione culturale”: avere nel cuore la cultura della terra natìa, non in termini semplicemente sentimentalistici, ma in termini culturali precisi e decisivi, significa ritrovare la capacità di valorizzare “in toto” la propria origine e appartenenza ad una storia, ad un ambiente, ad una data comunità, la cui importanza e valore non sono certamente determinati dalla piccolezza dei nostri confini territoriali… e, anche dalla certezza che solo uno che è in grado di valorizzare la propria cultura è capace di accettare, capire e valorizzare le altre.

Questo strano prete (che ho avuto modo di scoprire in maniera sempre diversa nel corso degli anni e che, purtroppo amaramente, bisogna riconoscere  che appare sempre più sconosciuto alle nuove generazioni, anche del nostro “natìo borgo”), ha avuto la capacità di “calarsi” talmente dentro la realtà culturale ed umana dei nostri paesi, da riuscire quasi a trasfigurare la realtà stessa, rendendo eccezionale quello che altro non è (non so se scrivere: “non era”) se non il normale quotidiano scorrere della vita dei nostri paesi.

L’abate Martino orientò la sua attività in diverse direzioni, non esclusa quella strettamente politica  della Carboneria di cui era un affiliato (impegnato a combattere, tra l’altro, anche la politica Vaticana); ma non ha trascurato, in gioventù, di punzecchiare le donne, non si è tirato indietro nell’impegno politico e quando, come si suoi dire, ha capito che ormai “si cogghìu ‘i carti ‘o pettu…”, si è rivolto a Dio e ne è venuta fuori, non solo a mio avviso, la sua produzione più matura, oltre che più intima e personale.

Accusato di avere cospirato contro il regime borbonico, viene più volte arrestato e più volte evade: si dice che si travestiva e si nascondeva alla stregua dei più spericolati banditi, al punto che i suoi avversari avevano accreditato la leggenda chi egli fosse la reincarnazione del diavolo (Maghammetta).

Incredibile ma vero (e qui, veramente, si vede in Martino uno “spirito libero” incapace di moderare i termini, dove la libertà nel suo scrivere, effettivamente, non conosce nessun tipo di limitazione) è l’episodio relativo alla prolungata anticamera a cui è stato costretto, in attesa di essere ricevuto in udienza dal Vescovo di Messina, il quale si intratteneva con l’Arciprete di Capizzi.

L’Abate Martino scocciato per la lunga attesa, pregò il segretario di consegnare un biglietto al Vescovo, e se ne andò. E… a chi poteva mai venire in mente di rivolgersi al proprio Vescovo con questi versi? Nel biglietto c’era scritto:

L’Accipreviti di Capizzi…

caccia “ca” ca resta pizzi,

caccia “pi” ca resta cazzi!…

E’ previti di pizzi e cazzi!

Certamente, a parte questi versi, non si può immaginare un Martino capace di moderare i termini, Martino è stato grande anche per questo: il suo grande bisogno di libertà, non ammetteva certamente alcuna limitazione di sorta, soprattutto nei suo versi.

Forse questo era un suo modo di sfogarsi: può darsi che, in questa grande libertà di espressione cercava di distrarsi dai mali che vedeva intorno: “…lu mundu prima t’alletta e poi si mustra ‘ngratu!…“, così soleva ripetere il Martino. Forse anche per questo cercava di distrarsi con composizioni “pungenti”, talvolta oltre ogni accettabile misura.

L’abate Martino è stato precettore nella casa del Marchese Nunziante di San Ferdinando; qui, vivendo in casa con loro, si è reso conto che l’autorità non era del Marchese, ma della moglie che, come si suol dire, aveva messo sotto il marito e, da questa situazione, ne trae lo spunto per scrivere “la gonnella”, cioè una “pesante” satira sui mariti che si lasciano comandare dalle mogli:

Viju ‘na nova moda, assai avanzata,

e nuju mi sa diri la raggiuni.

La saja ‘a tempi nostri è assai prezzata:

si cangia cu rifusu a lu cazuni.

 

La donna, chi da Ddeu fu destinata

serva di Adamu, diventau patruni,

e ll’omu, diventatu na patata,

‘nci sta di sutta comu nu cugghiuni.

 

L’anticu si sustinni cu riguri

cercandu la mugghieri servicedha,

mo’ viju ca la donna fa d’atturi:

la mugghieri mu pista lu martedhu.

 

E’ veru ca ragazzu, lu Signuri,

a Cana si la misi la gunnedha,

ma grandi cchiù non fici sti figuri:

perciò risuscitau, di poi, in pannedha.

 

Mo’ oji nudhu leji la Scrittura,

mu sapi quantu Cristu seppi fari.

La Genesi, o cazzuni, vi assicura

ca notti e jornu supra aviti a stari.

 

Mo’ l’omu è donna, è vili servitura,

e pe’ cchiù pena sua non po’ parlari:

si parla abbaja, e poi jestima l’ura,

quandu li cauzi soi vozzi cangiari.

 

Fu la cazzuni sempri valutatu

ma mo’ no vali cchiù di na cinquina:

tandu era nettu, e mo’ chi fu pisciatu,

puzza di stoccu vecchiu e di tonnina.

 

E l’omu chi si misi, sciaguratu,

la saja, la suttana e suttanina

di la mugghieri veni dominatu,

stenduta comu viscu o ciavurrina.

 

E’ chistu l’omu odiernu ‘ncivilutu,

chi vanta libertà e filantropia?

Oh cauzi! Oh saja! Oh tempu!

Omu avvilutu!…

Suggettu ‘a  na pisciazza… Uh porcaria!…

 

Questo era il Martino che, in gioventù, si divertiva a indirizzare i suoi versi in una realtà “leggera e profana”.

Solamente in età avanzata il Martino confessa che tutte le speranze e le illusioni inseguite in giovinezza, spesso si erano trasformate in delusioni: il suo bisogno interiore non è stato appagato né dalle satire, tanto meno dalle poesie politiche; anzi proprio mentre il Martino afferma di essere pentito di tutto quello che aveva scritto, compone una delle sue poesie più belle, “la Confessione del Poeta pentito”:

Venni, vidi, e non vinsi, anzi fui vinto

da tre nemici, e prigionier fui fatto,

quindi al collo, ne’ lombi, ai pie’ fui cinto

da triplice catena a duro patto.

 

Mille e più volte dal mio cor fui spinto

a frangerla; ma che? quand’era atto

or da lusinghe, or da minacce avvinto

fui da quegli empi, e me da me distratto.

 

Ma se l’ardir, la forza, il pentimento,

Dio, che può tutto, quando vuol m’appresta,

trionferò di mille inferni, e cento.

 

 

Gli ultimi versi dell’Abate Martino sono dedicati alla Madonna. Passando morente, nel marzo del 1884, sui piani di Castellace di Galatro, dettò dei versi da incidere all’interno della “Cona”, una piccola cappella costruita dai pastori, dedicata alla Madonna della Montagna:

Tu dei monti sei la Diva

che proteggi il pio pastor,

il villano, il passeggero, il paziente cacciator.

 Viator che passi,

all’inclita Mariana Maestà,

piega il ginocchio ed offri

amore e fedeltà.

Giunto a Galatro, l’Abate Martino muore il 17 marzo del 1884, deluso da quella patria per la quale aveva provato anche l’amarezza del carcere, ma confortato da una fede che gli ha fatto sopportare tutte le sofferenze della vita.

 

 

 

 

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