A CINQUANTA ANNI DAL SESSANTOTTO

Tutti gli anni si ricordano un sacco di cose, si celebrano anniversari a più non posso: gli argomenti dilagano dalla cronaca allo sport, dalla storia alla letteratura e chi più ne ha… non si tiri indietro. Il 2018, che ormai volge al termine, pensavo si sarebbe distinto, soprattutto, per i “cinquanta anni dal ’68”, invece non è stato così.

Ricordo che per il vent’anni se ne è parlato fino alla noia: è stata messa in moto una valanga di “io c’ero”, un fiume di nostalgia, un frenetico sfogliare l’album della giovinezza. “Ero del ‘68” era un marchio doc: la generazione buona, i sognatori, gli anticonformisti, che in fondo parlavano lo stesso linguaggio dei padri, i contestatori perbene, finalmente protagonisti di qualcosa.

Oggi, tranne qualche voce isolata, il silenzio ha dominato questa ricorrenza anche se, quelle confuse, irriducibili domande sull’uomo e i suoi bisogni, comparse sulla bocca dei giovani a partire dal ’68, ormai cancellate da un pezzo anche sui muri, rimangono: rimangono impresse nella memoria, cosicché anche in un periodo in cui non sembra pesare più l’incubo del ’68, qualcuno ha raccolto seriamente il senso di quelle domande, si  è confrontato con esse e, forse, ha imparato una storica lezione.

Ricordo che, personalmente, una grande lezione (forse è meglio dire “un pugno allo stomaco”) l’ho avuta da una lettera, apparsa sul quotidiano “Lotta continua” il 27.IX.1977: nella sua drammaticità, rappresenta un documento sofferto della condizione giovanile, così come è esplosa nel ’68 e continua ancora fino ai giorni nostri:

“Scrivo queste righe perché un nostro compagno si è suicidato. Purtroppo fatti come questi sono sempre più frequenti: non fanno neanche più notizia. Ma quando muore un ragazzo con cui hai lottato e ti sei divertito insieme, non puoi fare a meno di restare sgomento e di provare un tardivo senso di colpa. E’ vero che quando si muore così non si può neanche gridare ‘poliziotti assassini’. Ce l’avevamo immaginata diversa la morte di un nostro compagno: ucciso dai fascisti, dalla polizia e noi in piazza a gridare la nostra rabbia, a sfogare il nostro dolore. Certo anche Roberto è stato ucciso dal nemico, dal più malvagio di tutti: da questa sporca società in crisi. Ma morire così, da solo, in una giornata d’agosto, in un’auto piena di gas di scarico… No! Morire sulle barricate con la bandiera rossa in mano e la tua compagna stretta a te (come in un bellissimo manifesto del maggio francese) potrebbe essere anche bello, eroico, virile! Alcuni di noi, fantasticando, si saranno immaginati di morire in qualche posa da Enrico Toti, cercando di fermare un carro armato durante il colpo di stato o all’assalto del nostro palazzo d’inverno. Ma morire così è disumano. Non possiamo fare a meno di guardarci negli occhi senza avere il coraggio di chiederci se anche noi lo abbiamo ucciso, se anche noi siamo morti un pò con lui.

Anni fa pensavamo che la rivoluzione fosse lì dietro l’angolo ad attenderci cortese e sorridente. Si avanzava decisi verso lo ‘scontro decisivo’. Ma molti ‘scontri decisivi’ passavano e tutto pareva rimanere immutato. Quel piccolo ritardo, irrilevante sul calendario della storia, diventava per alcuni la misura di un fallimento. In contrasto con questa “esasperante lentezza”, la nostra vita, quella sì, correva veloce e senza intoppi: ti toglieva la giovinezza, ti spingeva ad un lavoro che non c’era o in ogni caso quasi sempre ad un lavoro schifoso. “Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia” si gridava: ed ora eccoti lì costretto a vivere tra i maledetti e beffardi “vecchi rapporti di produzione”. Ma questa è solo la metà della storia. Se fosse solo questo sarebbe sufficiente dire che il nostro orologio politico andava troppo avanti.

La seconda parte si potrebbe iniziare ricordando che nel 1968 si affermava che “tutto è politica”. Questo lo si diceva dando alla frase semplicemente il significato opposto a quello che ora ha l’espressione “il personale è politico”. Voleva dire che per fare la rivoluzione si doveva rinunciare ai nostri bisogni personali, voleva dire nascondere i nostri sentimenti. Quando la speranza di una rapida vittoria si dileguò e il lavoro politico diventò faticoso ed incerto, anche questa vita sociale e “spensierata” iniziò a dare segni di crisi evidente. Difficile “riconvertire” i pensieri, riscoprire insieme le nostre individualità represse, ritrovare l’umiltà per parlare dei propri problemi. Più facile era ricercare soluzioni personali, più facile era lasciarsi andare, spezzettarsi in piccoli gruppi; più facile era rendersi conto di essere soli a volte disperati.

Questa non è (fortunatamente) la rappresentazione di tutta la realtà. Compagne femministe hanno portato avanti il discorso della riscoperta politica attraverso il personale; i giovani compagni da parte loro non voglio più cadere nelle vecchie trappole.

 Questa morte non è il frutto del caso. Egli è morto anche perché siamo stati “disumani”, tutti noi, Roberto incluso, vittime di un certo modo di fare politica. Disumano è stato mandare allo sbaraglio i compagni davanti alle fabbriche; è stato il modo con cui si sono trattati i compagni “silenziosi” che non parlavano quasi mai alle riunioni, gli “stupidi” perché quando parlavano dicevano (male) due ore tre cose che parevano banali; disumani sono stati i piccoli e grandi leaders depositari del sapere e del potere: disumani sono stati i rapporti ai cancelli con gli operai che per noi erano di volta in volta o fonti di notizie, o lettori dei nostri volantini, o persone a cui spiegare la rivoluzione. Quanti sono i compagni persi per strada, allontanati da questo modo di fare? Chi ricorda i loro volti, chi ha mai conosciuto la loro storia? Chi li ha aiutati a crescere politicamente, o ad ambientarsi in sede? Roberto è morto ed è sciocco e retorico dire ora delle frasi tipo ‘lotteremo anche per lui’, ‘lo avremo sempre al nostro fianco’; è cinico affermare che bisogna fare che Roberto non sia morto invano: significherebbe trovare a questa morte orrenda una giustificazione a posteriori. Ma tra i tanti motivi che ci spingono a modificare il nostro comportamento politico e personale, c’è anche il desiderio che nessun compagno sia costretto più ad andarsene così: c’è il desiderio che tra la nostra splendida teoria piena di futuri paesi delle meraviglie e la nostra squallida pratica quotidiana non si lasci più aperto un varco così grande dove un uomo possa perdersi”. Un compagno di Roberto (Ivrea)”.

Lettere come questa del “compagno di Roberto”, devono interrogare e giudicare molto il modo di vivere e fare politica. Fatti come questi, testimoniano che il desiderio e le domande che tanti giovani avevano dentro, erano più grandi di ciò che i partiti e le organizzazioni politiche promettevano.

La vita poneva delle questioni a cui le ideologie non potevano, e non possono, rispondere, come ben aveva capito Pier Paolo Pasolini, che è stato quello che di tutto quello che il ’68 ha rappresentato ne ha capito di più… è stato quello che ha “messo il sale nella ferita” e quindi ha rappresentato per il “potere”, il fantasma che più si doveva esorcizzare.

Non a caso contro il nuovo potere che distruggeva la tradizione e i suoi valori, dando l’impressione di grande libertà e tolleranza, Pasolini scriveva: “Oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano una meravigliosa vittoria che non esisteva!… Oh sfortunata generazione, piangerai, ma di lacrime senza vita, perché forse non saprai neanche riandare, a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto”.

Oggi a distanza di cinquanta anni, cosa resta allora? Il ’68 non può restare solo un cumulo di biografie, un inventario di reperti di una storia che non può essere scritta. Se il ’68, nonostante i caratteri che ha rivestito, è stata l’occasione per la scoperta di una speranza e di una voglia di vivere con gusto e significato all’interno della società, bene. Altrimenti si può liberamente affermare che è come se non fosse successo mai nulla…

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