DOPO IL CONTE RODI, “L’AMARCORD O LA BAARIA GALATRESE” CONTINUA CON I RICORDI DI PEPPE OCELLO

Qualche giorno fa ho pubblicato un lungo intervento sulle “memorie galatresi” del conte Franz Rodi Morabito, E sono stati proprio tanti i commenti seguiti alla pubblicazione dell’articolo che in tre giorni ha avuto 5423 visualizzazioni. Mi hanno scritto tanti amici evidenziando come “questi ricordi non fanno altro che arricchire la bellezza del nostro paese e di chi ci ha vissuto anche se per poco e lo porta nel cuore ancora così vivamente”, oppure come il conte Rodi Morabito ha fatto emergere “uno scorcio di vita  vissuta, la cui lettura è  stata molto piacevole e allo stesso tempo interessante”, perché il suo scritto è tratto da una  realtà, triste per il periodo particolare vissuto, ma anche affascinante perché  arricchisce il nostro bagaglio di storia Galatrese, mettendoci davanti ad un passato, che anche se possiamo definire vicino, per tanti aspetti sembra lontanissimo. Un caro amico mi ha scritto che ci troviamo descritta egregiamente “una Amarcord… Baaria galatrese”: una nostalgica rievocazione delle “morte stagioni”, con per sfondo la fanciullezza vissuta “sulla piazzetta”, con “la fontana… la casa del Fascio, il grande albero vicino alla casa del dottore…! Il tutto edulcorato dal finale tenero e grottesco dato dalla beata ingenuità infantile, che, prova “delusione” non riuscendo a comprendere la straordinaria valenza ed importanza della ragione dell’assenza dei soldati che “non vanno più ad attingere l’acqua“.

Viviamo ormai nell’era dei computer: sono scomparsi la matita copiativa, il calamaio, la penna con il pennino che spruzzava d’inchiostro il foglio. Eppure, per strano che possa apparire, questa non era la realtà dei nostri nonni, bensì dei nostri padri. Poche generazioni, come la nostra, hanno assistito ad un così incalzante e radicale mutamento della vita e del costume in così poco tempo: le nostre nonne tiravano l’acqua al pozzo e lavavano i panni al fiume, mentre alle nostre madri basta premere il bottone della lavatrice; i nostri nonni andavano all’estero per mantenere la famiglia, oggi si va all’estero in vacanza; a trent’anni le nostre nonne, stremate dalla fatica, ne dimostravano cinquanta, oggi le cinquantenni ne dimostrano trenta. Questi aspetti, certamente sono la testimonianza di un qualcosa di più grande che è successo in questo secolo, anche se non sempre ce ne rendiamo conto.

L’intervento dell’amico Peppe Ocello si presenta come una testimonianza viva, che va a collocarsi egregiamente con quanto ha scritto il conte Rodi Morabito, ed io nel ringraziarlo sono contento di pubblicare integralmente tutta la sua vibrante testimonianza, che si richiama ad una epoca i cui volti, almeno quelli della mia età ancora non hanno dimenticato e ne conservano un affettuoso ricordo. E, grazie a Peppe, con la tastiera del mio pc abbiamo avuto la possibilità di visitare un’altra importante stazione, per tanti ancora sconosciuta… mentre il viaggio continua ancora e non sappiamo a quale stazione ci fermeremo con il prossimo intervento. (ms)

Caro Michele,

è con grande piacere che scopro dell’affetto che il Conte Rodi Morabito nutre per Galatro, e dei suoi fanciulleschi ma felici ricordi del suo trascorso da “forzato” galatrese. La sua appassionata descrizione della Galatro dei suoi tempi, ha azionato l’interruttore dei miei ricordi. Anch’io, (molti) anni dopo, come la camionetta del suo racconto, andavo alla stessa fontana a prendere acqua. Più volte al giorno, d’estate anche 10 se non più. Ma non per i miei commilitoni, bensì, e per fortuna, per il mio “mastro“: Fortunato Furfaro il sarto. Si, perché fino a circa la metà degli anni ’70, ancora si usava avviare all’arte i figli. Per toglierli dalla (cattiva) strada e per dotarli del “saper fare” qualcosa per il loro futuro: “impara l’arte e mettila da parte” era il proverbio applicato. E io, essendo il più piccolo (9/10 anni) tra i discepoli della sartoria, ero “l’acquaiolo ufficiale”. Ed essendo a quel tempo poco diffusi i frigoriferi (come pure le tv), prelevavo l’acqua fresca con un boccale (di plastica bianca) da circa 1 litro che, puntualmente, o veniva consumato subito o comunque in poco tempo si doveva riempire con nuova acqua fresca. E quindi un mio nuovo viaggio di andata e ritorno. Che era breve, ma la routine prolungata e il caldo di luglio e agosto a Galatro lo rendeva faticoso.

Usanza, quella dell’avvio all’arte che non usa più da tempo, né a Galatro né altrove. Quanti piccoli artigiani ricordo  ancora: calzolai (almeno 4: i fratelli Villone, mastro Rosario, Salvatore Manduci il bidello), fabbri, scalpellini, falegnami. Maestranze che col tempo sono sparite quasi tutte. Tante cose sono cambiate in meglio: allora pochissime ragazze erano autorizzate dai genitori a frequentare le scuole medie, pena rischio onorabilità della famiglia e segno di poca serietà della possibile futura moglie; i figli maschi avviati ai lavori nei campi per aiutare economicamente l’unica fonte di reddito, solitamente il marito, della famiglia (numerosa con almeno 6 bambini). L’analfabetismo era ancora molto diffuso nella maggior parte dei nostri genitori. Le donne che avevano i mariti emigrati senza figli istruiti, dovevano rivolgersi agli estranei nella corrispondenza col proprio congiunto. Perciò hai ragione anche tu caro Michele, quando parli di una Galatro che non c’è più. Il profumo del legno lavorato alla pialla (mastro Nicola Piccolo l’ho visto creare infissi d’ogni stile e genere), della tomaia da modellare e fissare sulle suole (pette) con la colla, il suono del martello che picchia sull’incudine, davano il senso di una comunità “viva, operosa e creativa“. Poi, con l’avvento della grande industria e dei centri commerciali, si sa com’è andata a finire.

Non che sia nostalgico, assolutamente, perché sul lato economico si sta tutti un bel po’ meglio. Solo pensavo alla soddisfazione di un fabbro come mastro Carmelo Macrì (poi postino) a cui ho visto insegnare come fare fiori in ferro con le foglie attorno, completamente a mano, con l’uso del solo martello e punteruolo; o le ringhiere di piazza Matteotti in ferro battuto ad opera, mi pare, di don Carmelo Scoleri (che fu per tanti anni assessore), o i portali in pietra scolpiti dai martellini fratelli Pisani. A tal proposito ricordo ancora il rumore degli esplosivi usati per frantumare i grandi blocchi di pietra, per portarli alla condizione di poter essere poi lavorati, provenire dalla montagna. Una menzione particolare merita, non foss’altro che per l’unicità di presenza, è il laboratorio tessile della (credo) nonna della dottoressa Luigina. Un grande telaio orizzontale in legno massiccio, azionato con mani e braccia contemporaneamente che io piccolino ho visto una o due volte e che ricordo enorme di dimensioni. Una delicatezza nei gesti di quell’anziana signora, che infilava la “navetta” in mezzo a una fitta e infinita fila di lana tese alla perfezione, con ritmo cadenzato e preciso, che mi attraeva allora e ricordo tutt’oggi con stupore e ammirazione.

Come pure ricordo il mulino (ad acqua) dei Ferraro: il profumo della farina macinata fresca, nello scendere dal reparto molitura e finire nei sacchi, inebriava l’ambiente ed estasiava l’astante. Infine, la “calcara” lassù alla Colonia, nello spazio interno alla grande curva che porta a Giffone e al cui posto oggi insistono moderne villette. La creta lavorata a mano (e letteralmente, anche coi piedi), era si una faticaccia, ma la soddisfazione nel vedere tutti quei mattoni, frutto della propria fatica stesi al sole ad asciugare era indescrivibile. Io piccolissimo aiutavo saltuariamente mio nonno paterno (gestore per qualche anno) per quel che potevo: capovolgere uno ad uno le migliaia di creazioni, perché si asciugassero anche dal lato opposto. Oggi chi sarebbe in grado di produrre simili opere manualmente? I Michelangelo moderni sono i robot. Fortuna che la fantasia, per adesso, resta umana. Come umano è ancora oggi il cuore grande dei Galatresi, per ospitalità, cordialità, solidarietà. 

Scusa Michele, ma su questi valori Galatro è ancora identico ad allora. Sono sicuro che anche tu su questo, concorderai con me. Un abbraccio. Giuseppe Ocello.

Vedi anche: https://www.michelescozzarra.it/franz-rodi-morabito-ricordi-galatresi-di-un-rosarnese/

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