INTERVIENE UMBERTO DI STILO SUI DUBBI AVANZATI SULLA PRESENZA DI SANT’ELIA NEL CONVENTO DI GALATRO
Era il 19 febbraio 2018 quando sulla bacheca facebook di Antonio Aricò, con delle sue fantastiche foto sul Convento di Sant’Elia di Galatro, è stato pubblicato una parte di un mio articolo sui ruderi e la presenza dei monaci basiliani in quel posto: “Verso la fine di una lunga giornata di cammino, degli uomini con dei carichi molto pesanti, si fermarono in un posto solitario e lontano dai rumori della guerra, situato in una località montuosa tra i fiumi Potamo e Metramo. Erano i monaci dell’Ordine di San Basilio che fuggivano dall’antica città di Taureana, perché distrutta dalla guerra. Uno di loro ispezionò il posto e disse: “E’ ben questo il luogo del quale eravamo alla ricerca, credo che andrà bene per noi. Ringraziamo Dio che ci ha permesso di arrivare fin qui sani e salvi”. Portavano con loro il corpo di Sant’Elia ed in quel luogo edificarono un Convento ed una Chiesa a Lui dedicata: da ciò derivò la denominazione della località. Erano a più di tre miglia da un luogo abitato situato in una vallata attraversata da un piccolo fiume e abitata da famiglie di contadini, artigiani, boscaioli e conciatori di pelli: tale luogo si chiamava Galatro. Vi si installarono per la notte, era l’anno 1075, e rimasero per molti secoli, fino a quando non furono costretti ad andare via a causa dei numerosi banditi presenti nella zona”.
A distanza di quasi sei anni, giorni addietro ho visto che ha commentato il post Oreste Kessel Pace: “Nessun corpo di S. Elia (Speleota reggino Profeta da Enna) hanno mai riposato in quel monastero. Il primo è stato sepolto nella grotta di Melicuccà, centro del monastero da Egli fondato e le reliquie sono state portate in una chiesa poco distante. Il secondo, morto in Tessaglia, fu sepolto nel monastero da Egli fondato e ritrovato ai confini tra l’odierna Seminara e S. Anna. Nessun corpo è stato mai trasferito o portato a Galatro, il cui monastero è stato solo dedicato allo Speleota. Basta leggere le Fonti, ossia le agiografie del XI e XII secolo, tradotte dal greco dal Taibbi e dal Saletta nel secolo scorso”. Alla mia risposta, presa dal libro del nostro storico Umberto di Stilo, dove afferma che “i monaci dopo aver abbandonato il loro convento giunsero nel territorio di Galatro e qui decisero di edificare il loro monastero e qui vollero trasferire il corpo acefalo di Sant’Elia di Enna che, morto a Salonicco nel 903, era stato seppellito nel convento di Aulinas ove era stato trasportato dal fedele confratello Daniele”.
A questo mio commento il Kessel Pace risponde che “la fonte è palesemente in inganno e attinge a fonti che non avevano, ancora, a disposizione le traduzioni dirette dal greco. Confondono i due santi invertendone i dati e infine affermano di non poter essere precisi. Rimando alle corrette fonti già indicate”. Alla mia osservazione che non lo conosco (non ha mai letto niente di suo, conosco molto bene Umberto di Stilo, e non oso minimamente dubitare di ciò che lui ha scritto ed è lo stesso Umberto ad evidenziare “i difformi pareri degli storici sull’argomento”. Mi risponde ancora Kessel Pace con una serie di consigli e posizioni che mi hanno portato a fare leggere al prof. Umberto di Stilo: “non deve conoscere me, non sono nessuno. L’importante è conoscere le fonti principali dei santi italogreci, cioè le agiografie, redatte dagli stessi monaci nei monasteri calabresi ed oggi custodite a Messina, alla biblioteca Longo (i monasteri calabresi più a sud furono accorpati al SS Salvatore di Messina). Le consiglio l’antologia del Ferrante o quella del Minuto che contengono le sinossi delle traduzioni, oppure le agiografie complete tradotte dal Taibbi (per S.Elia da Enna, di cui mi sono permesso di scrivere il romanzo storico e che studio da trent’anni) ed il Saletta per lo Speleota. Queste sono le fonti principali che si basano sugli originali greci. Nel corso dei tempi precedenti le medesime agiografie sono state tradotte in latino, con errori plausibili che le rendono imprecise ed errate. Molti studiosi hanno utilizzato le traduzioni latine, riportando gli errori fino al secolo scorso. Queste sono le fonti di secondo e terzo grado, per i motivi indicati, non affidabili (per esempio la traduzione da Salinas in Aulinas, l’inversione di una lettera che ha causato non pochi disagi). Questo è quanto, ma lo studio sui Padri Greci è vastissimo e, come le dicevo, mi vede impegnato ormai da oltre trent’anni in studi, pubblicazioni, relazioni e per molti anni guida alla cripta di San Fantino, il santo più antico e importante della nostra Regione”.
Questa è la risposta che mi ha mandato Umberto di Stilo, sulle affermazioni del Kessel Pace, che riporto integralmente.
Carissimo Avvocato,
ti ringrazio per avermi segnalato lo scambio di valutazioni storiche che sui contenuti di una pagina del mio libro sui conventi di Galatro, qualche giorno addietro hai avuto con un interlocutore palmese. Ti ringrazio altresì per la posizione difensiva che hai assunto nei miei personali confronti e dei miei scritti, per i quali avrei attinto a “fonti di secondo e terzo grado”.Come sai, caro Avvocato, non ho mai amato la polemica. Soprattutto quando assume il carattere del “Cicero pro domo mea”. E, in questo caso ha tutte le caratteristiche per esserlo. Conoscendomi da sempre, sai pure che non ho mai avuto la pretesa di salire in cattedra per sottovalutare il lavoro altrui – debolezza alla quale c’è chi si abbandona facilmente – perché, come documenta la mia ultracinquantennale attività pubblicistica, ho sempre guardato col massimo rispetto le altrui pubblicazioni soprattutto per il doveroso apprezzamento che bisogna avere verso il lavoro di cui esse sono concreta testimonianza. Rispetto che non è mai mancato anche quando nelle pagine di qualche libro mi sono imbattuto in evidenti esagerazioni ed inesattezze storiche.
Inoltre, nel corso dei lunghi decenni di ricerche nei vari archivi e dalla diretta conoscenza derivante da anni di approfonditi studi, ho maturato e fatta mia la convinzione che le indagini storiche non finiscono mai perché, sulla scorta di nuovi documenti, qualunque episodio o avvenimento può essere aggiornato, modificato, corretto. E nella ferma persuasione che tutto ciò possa sempre verificarsi ho più volte sostenuto – e ribadito anche nella prefazione alla mia recentissima monografia storica – che è compito dei futuri ricercatori andare a scovare nuovi documenti per completare o correggere – se mai ce ne fosse bisogno – la ricostruzione storica di un singolo avvenimento o di un determinato periodo. Renzo Defelice ha dato la concreta dimostrazione di come sia possibile il revisionismo storico.
Fatta questa necessaria premessa, mi preme ricordare che nei miei scritti non ho mai data per certa la notizia secondo la quale all’interno del convento galatrese consacrato a sant’Elia l’ennese – o il Giovane che dir si voglia – fossero conservate le ossa del santo. Anzi, in considerazione che ci troviamo di fronte alle voci discordanti di diversi storici del passato (Gaetani – il più antico – e poi: Fiore, Martire, Taccone Gallucci, De Salvo, Musolino, Raschellà, Securi, ecc.) ho sostenuto che è necessario fugare ogni dubbio in maniera definitiva. Anche perché se Rossi Taibi (nella agiografia di S. Elia di Enna) e Saletta (in quella dello Speleota) danno notizia della vita e del luogo di seppellimento dei due omonimi santi, non danno quella relativa ad eventuali successive esumazioni e spostamenti dei loro resti mortali. E poichè “argomento del contendere” è proprio la presenza delle ossa dell’Ennese che i monaci del convento di Aulinas, per sottrarle dalle sicure profanazioni delle turbe turchesche, le avrebbero trasferite nel convento di Galatro, tengo a ribadire che se non sono attendibili gli storici del passato, perché sono incorsi nello scambio dei santi, non credo si possano avanzare dubbi sulla validità della “storica” presenza a Galatro di san Cono. Nelle pagine della sua agiografia si legge, infatti, che nel 1202, di ritorno da un pellegrinaggio in terra santa, prima di rientrare nella sua grangia di Naso, volle raggiungere Galatro “per raccogliersi in preghiera sulla tomba di S. Elia”, del quale si considerava “discepolo e fedele seguace”. Sempre nel bios del santo nasitano, si legge che trovandosi a Galatro, guarì un giovinetto paralitico dalla nascita, evento ricordato anche tra le motivazioni della sua successiva canonizzazione.
Non sta a me -ricercatore di storia locale- affermare che quasi tutti gli storici del passato sono incorsi in errori. E’ certo, però, che sulla reale appartenenza dei resti mortali che si conservavano e veneravano nel convento galatrese la omonimia dei due santi, la contemporaneità in cui hanno vissuto e lo stesso ambito territoriale in cui hanno operato, abbiano potuto indurre in involontari errori. Pur se con diversa denominazione, però, tutti gli storici hanno sempre affermato che tra le mura del convento galatrese si conservavano le spoglie mortali di “un” S. Elia. Lo testimonia anche il Fiore che – come provinciale dei cappuccini – aveva visitato il galatrese convento di “Sant’Elia di Copassino” nel quale già da due secoli vivevano i confratelli del suo ordine. Nel secondo volume della sua monumentale Calabria illustrata, stampato nel 1743 scrive, infatti, che le ossa di S. Elia Speleota si trovavano nel convento galatrese. Se bisogna dar credito all’atto del notaio Carmelo Fantoni, però, le ossa dello Speleota non potevano essere nel convento di Galatro se nel 1747 – vale a dire 4 anni dopo la pubblicazione del libro del Fiore – sono state trovate nella spelonca di Melicuccà.
A questo punto una riflessione è d’obbligo: dando, infatti, per scontato che lo storico Fiore è incorso in uno scambio di appartenenza di quei resti mortali, è altrettanto scontato, però, che nel 1743 all’interno del convento galatrese si conservavano i resti mortali di “un sant’Elia”. Logica vuole, pertanto, che se bisogna dar credito all’atto notarile, le ossa presenti nel convento galatrese – così come è stato sempre tramandato e come si legge nelle pagine di diversi storici – appartenevano all’Ennese. Detto ciò, carissimo Avvocato, ritengo che nessuno possa vantare di essere in possesso di inconfutabili “verità storiche” perché sulla autenticità di quelle ossa -e sulla paternità di quelle che si conservavano nel convento galatrese- c’è una tale incertezza destinata a protrarsi ancora chissà per quanti decenni. A meno che, per sgombrare il campo da qualsiasi legittima perplessità e fare luce sulla “vexata questio”, – così come lo scorso anno, in tutta modestia, mi sono permesso dì proporre ai ricercatori venuti da Enna e che coincide con quanto adesso suggerisce lo studioso Enrico Morini nella sua recentissima pubblicazione “Vita di Elia Speleota” – non si sottopongono alla prova del carbonio 14 le ossa che si conservano nella chiesa di Melicuccà insieme a quelle che sin dal 1885 chiuse in una teca d’argento ed appartenenti anche allo Speleota si conservano nella cattedrale di Mileto, insieme a quelle che si custodiscono nella basilica di Seminara. Tale esame non solo consentirebbe di datare il reperto ma anche di verificare l’esistenza o meno della frattura al braccio che – secondo quanto riportato nel suo Bios – aveva riportato il santo.
Traguardo difficile da raggiungere perché, tutto sommato, le comunità di Melicuccà e di Seminara sono legate ad una consolidata tradizione di Fede dalla quale, dopo secoli, è difficile potersi staccare. Nel frattempo – e fino a prova contraria – a Galatro si continuerà a credere che nel convento fondato nell’anno 951dai basiliani in contrada Copassino (odierna Cubasina) per lunghi secoli siano state conservate e venerate le ossa di sant’Elia. Quasi sicuramente quelle dell’Ennese che i monaci trasferirono da Taureana quando furono costretti ad abbandonare il loro convento per sfuggire alle incursioni dei saraceni. Senza con ciò voler sminuire il prestigio e la santità del corregionale Speleota.
Con la fraterna stima di sempre,
Umberto di Stilo
Galatro, festività dell’Immacolata Concezione