MEDICINA: LA RICHIESTA DI “SALUTE” PONE LA DOMANDA ULTIMA SULLA “SALVEZZA”

La realtà del dolore e della sofferenza pone domande di varia natura alla medicina e le risposte della scienza, pur importanti, si integrano con altre riflessioni: il dolore, umanamente vissuto come contraddizione, appare ultimamente come un grande enigma, inscindibilmente legato al mistero dell’uomo. In tanti interventi, diversi anni fa, il cardinale Angelo Scola, ha sempre sottolineato l’importanza di questo “mistero”, nel panorama della medicina del XXI secolo. Il contributo di medici, filosofi e scienziati, di cui l’aspetto unificante è l’esigenza di un approccio capace di integrare tra loro le diverse dimensioni dell’atto clinico e dell’arte terapeutica, non è più visto come una contrapposizione, come è a lungo accaduto negli ultimi secoli e come spesso accade ancora. Il medico è in prima linea nel cercare di eliminare o alleviare, con tutti i mezzi possibili, il dolore e la sofferenza. Ma per far questo nel modo migliore, oltre agli strumenti tecnici deve possedere quella sapienza che coglie il senso del sintomo e della malattia per l’intera persona, la quale con la richiesta di “salute” pone anche, più o meno consapevolmente, una domanda di “salvezza”.

Sovente siamo costretti a fare i conti con “l’urto della realtà”: non si tratta solo della crisi economica, delle guerre lontane o dei fenomeni migratori, ma di eventi entrati prepotentemente nelle nostre case, che ci costringono a guardare in faccia la realtà del dolore e della sofferenza e l’incontro con la sofferenza, suscita interrogativi non meno pesanti per la teologia, per la medicina e per la stessa politica. La Chiesa, fin dagli inizi, ha avuto un’attenzione speciale per i luoghi di cura, consapevole che al loro interno l’uomo si confronta con le domande ultime dell’esistenza: il significato del nascere, del soffrire e del morire. Oggi, tuttavia, la sofferenza ha cambiato il volto stesso della teologia: il partner della teologia, infatti, sembra non essere più l’incredulo, ma l’uomo che soffre, che a questa sofferenza non riesce più a dare un significato. Impotente a rispondere con brillanti teorie a chi, come Cristo sulla croce, lamenta l’abbandono da parte del Padre, la Chiesa, più che nel passato, è costretta a prendere consapevolezza che la risposta cristiana al mistero della sofferenza non è una spiegazione più intelligente delle altre, ma una Presenza. Di fronte alla sofferenza, soprattutto davanti a quella di chi è incapace di riconoscerle un significato, anche la medicina è oggi costretta a ripensare i suoi “regolamenti”: l’azione della medicina è autentica solo se è proposta all’interno di una visione integrale dell’uomo, perché benessere e dolore non sono separabili da una domanda di significato.

Di fronte alla sofferenza e al dolore, soprattutto se estremi, l’uomo è sempre stato tentato dalla resa o dalla ribellione velleitaria. Oggi però egli è sedotto da una visione della medicina, che gli propone di usare la scienza e la tecnologia per sconfiggere il dolore e la sofferenza, rimuovendo alle radici l’interrogativo che è al cuore della domanda sull’uomo. A quest’uomo si prospetta di poter divenire padrone della salute e della stessa vita. Se non fosse per le tragedie che di tanto in tanto ci richiamano alla realtà, forse qualcuno incomincerebbe a illudersi anche di poter vincere la morte. Esiste tuttavia anche un’altra medicina, convinta che la risposta sia in una presenza, capace di accompagnare chi è nel dolore, consapevole che la sofferenza ultima del malato è nell’abbandono, cioè nel sentire di non essere amato. È una medicina che non ha deliri di onnipotenza, che non sogna alcun accanimento terapeutico, ma che non rinuncia, quando è sconfitta nella sua capacità di guarire, alla sua ineliminabile e potente possibilità di prendersi cura, offrendo a chi soffre, insieme alla migliore sedazione del dolore, anche ciò di cui ha più bisogno: la compagnia e il sentirsi amato. È la medicina che, di fronte ai suoi limiti terapeutici, non mira ad affrettare una morte con dignità, ma ritrova i fondamenti della sua missione nel “preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine”.

Infine, anche la politica è chiamata a tener fede alla sua vocazione di servizio al bene comune, producendo un diritto forte, capace di garantire principi irrinunciabili. La responsabilità del legislatore, tuttavia, sarebbe farisaica se fosse disgiunta da una reale attenzione per chi soffre. Ne va della civiltà di un popolo e dell’umanità della convivenza civile.