PROSA E POESIA NE “L’ARCIBATE” DI BRUNO ANTONIO DEMASI

Appena ho avuto in mano il libro dell’amico prof. Bruno Antonio Demasi, devo ammettere di essere rimasto sorpreso dal titolo: “L’Arcibàte” e, come il Carneade di manzoniana memoria, adattando le parole del povero don Abbondio mi sono domandato “L’Arcibàte! questo nome non mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un prete del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?”. Ma la risposta non ha tardato ad arrivare già dalla lettura delle prime pagine, infatti il libro si apre con un’introduzione dell’Autore che ha lo scopo di introdurre il lettore nella narrazione partendo dalla “dimensione del ricordo” cioè “cogliere l’attimo impalpabile che è stato il respiro della comicità insita nelle cose, quel filo di ironia e di autoironia che costituisce un po’ per tutti l’uscita di sicurezza dalla maschere quotidiane e dalla seriosità celebrativa e autocelebrativa che tende a distruggerci. L’Arcibàte, il povero parroco/contadino, sanguigno protagonista di questi racconti è solo attraverso questa uscita di sicurezza che può essere compreso e ricordato, nell’ironia affettuosa verso sé stesso e verso gli altri, in ogni brevissimo momento di gioia e di pace, in ogni lunga esperienza di fatica e di sofferenza di cui occorre fare dono e lode a Dio senza smancerie e narcisismi, anzi in silenzio”.

Dopo l’introduzione prende avvio il racconto vero e proprio. La narrazione è divisa in XII capitoli, ciascuno dei quali contiene una piccola storia, che inizia e si conclude nello stesso capitolo: vengono narrati gli episodi di vita quotidiana del paese, nei quali l’Arcibàte è protagonista di vicende molto singolari dove l’Autore si limita a raccontare dei fatti che ha già sentito, oppure roba inventata e perciò tanto verosimile che lo porta a scrivere, alla fine del libro “Se si esclude in qualche modo il protagonista, tutti i personaggi ed i fatti narrati sono frutti di fantasia. O quasi”. E quel “quasi” messo alla fine sta a dire che non c’è niente di straordinario nei fatti narrati, si può dire che è una semplice questione di ragionamento, perché in un ambiente come quello descritto nel libro possono verificarsi, ed essere realmente accadute, le vicende narrate. Realtà e fantasia si mescolano, anzi vengono mescolate dalla sapienza del narratore che da vita a qualcosa di nuovo e di unico, che nella letteratura trova compimento e risposta.

Il paese del protagonista non viene apertamente specificato, ma è inserito in un contesto ben preciso: il luogo è un pezzo di territorio della Piana del quale l’Autore non da delle descrizioni precise, neanche sul “come e perché” il vescovo mandò questo sacerdote in quel pezzo di Chiesa di poche centinaia di anime. Dice solo che fino all’insediamento ufficiale non si sapeva neanche come chiamarlo e che “furono i bambini della parrocchia che tra uno schiamazzo e l’altro decisero di chiamarlo Arcibàte. E Arcibàte fu, per tutti”.

Bisogna riconosce che se l’Autore raccontasse tutta la storia in modo completo, se spiegasse ogni passaggio della narrazione, il lettore avrebbe un quadro completo e preciso della vicenda narrata, mentre si ha l’impressione che vuole far comprendere al lettore le storie narrate solo attraverso l’intuito e il sentimento. In effetti, in tanti racconti anche l’umorismo è basato sull’intuito, la narrazione scorre liscia senza interruzioni, ma l’umorismo nasce dall’accostamento contrastante dei due fatti che risultano ironici. Esempio lampante di questo si trova nei racconti “Mizzica, La iumenta di Pinnéri e In vino Pietas”, dove il  lettore è come se si trovasse effettivamente davanti alla scena narrata, la vivesse così direttamente ed intensamente, fino a coglierne da solo l’evento ironico.

A voler leggere bene i 12 racconti, si percepisce come le varie storie non sono scollegate fra loro e hanno un filo conduttore, costituito dalla realtà dei nostri paesi così come era diversi decenni addietro, un ambiente storico, geografico e sociale diverso dal nostro (e quando dico “nostro” mi riferisco a come ci rapportiamo oggi alla realtà nella quale viviamo), un mondo intero, con le proprie leggi, la propria cultura, i propri personaggi, immerso nella vita agricola e ancora attaccato alle proprie tradizioni, ai propri costumi con vicende di persone comuni e umili di un paese di campagna  che, nonostante occupino posizioni importanti nella gerarchia del mondo del paese, restano comunque piccoli, cioè umili e semplici come tutti gli altri abitanti, senza differenza alcuna.

Ne “L’Arcibàte” l’Autore adotta il rigore di un cronista in tutti gli ambiti, utilizza un linguaggio molto vicino a quello parlato, fa ampio uso di modi di dire popolari, talvolta usando anche il nostro dialetto, con qualche parola o espressione oggi scomparsa del tutto. E anche se sostiene che nel libro c’è molto frutto della sua fantasia, il suo racconto non nasce solo dalla pura immaginazione, ma anche dalla considerazione razionale del luogo, del tempo, delle persone, che hanno dato origine a determinate vicende che con grande realismo sono collocate in un ambiente storico e geografico ben preciso. Bellissima e molto umana la descrizione del rapporto dell’Arcibàte con il suo vescovo, non omettendo di evidenziare che nessuna visita veniva fatta a “mani vuote” anzi la vecchia macchina dell’Arcibàte era sempre piena di prodotti della campagna, formaggio e vino, finanche per il prete che ha curato la preparazione di Peppino per poter entrare in seminario.

Penso che bisogna dire “grazie” al prof. Bruno Demasi, perché con questo libro, come lui stesso scrive nel retro di copertina ci ha presentato, e fatto conoscere, attraverso un personaggio della nostra terra come l’Arcibàte, una pagina della storia della nostra terra che meritava di essere conosciuta, anche attraverso una figura umana singolare “archetipo inedito del prete di campagna insofferente agli schemi, ma solidamente legato ai valori della sua vocazione e della sua storia inzuppata dalle storie delle persone a lui affidate. E’ anche emblema di una civiltà semplice e antica in cui l’esistenza degli uomini si intreccia indissolubilmente con quella degli animali e della terra, rivelando i lati umoristici e a volte drammatici di un quotidiano intriso di povertà e di paura, ma anche di voglia di vivere e di non prendersi molto sul serio per poter andare avanti”.

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