SULLA “LETTERA APERTA DI UN CALABRESE VIGLIACCO” DI FRANCESCO OSCAR FERRARO

Ho sempre amato scrivere, scrivere è come mettersi a nudo senza paura alcuna. Elimina ogni forma di giudizio, in quel momento siete solo tu ed il bianco e nero che scorre dalla tua pancia. Stavolta mettersi a nudo è stato estremante feroce, quanto naturale. Quando parliamo di Calabria, parliamo di radice”. Con queste parole Francesco Oscar Ferraro presenta un suo intervento, dal titolo provocatorio “Lettera aperta di un calabrese vigliacco”, pubblicato sul sito web WordNews, che mi ha destato parecchie considerazioni che voglio riprendere, perché come ha scritto il prof. Vito Teti: “Occorrono sguardi nuovi, profondi, attenti, amorevoli: non superficiali, interessati o ubbidienti a logiche neo-moderniste applicate proprio ai luoghi distrutti dalla modernità. Il richiamo al paese come luogo puro e incontaminato, in cui ci si muove ammirati, commossi, in attesa che la vita riprenda in un imprecisato futuro, prescinde completamente da ciò che il paese è diventato: non più luogo, in cui il vuoto ha preso il posto del pieno, desertificato dalla devastazione antropologica e sociale conseguente a un cinquantennio di fughe, da crisi economica e demografica, assenza di servizi di cittadinanza“.

Lettera aperta di un calabrese vigliacco

Ogni volta che torno provo a destrutturare alcuni retaggi socio culturali aberranti, ma è poco, troppo poco per un territorio che necessiterebbe di un intervento massiccio di massa, di un interessamento fisico e viscerale senza precedenti. Ed è per questo che nell’ammenda dei miei peccati fatico a non considerarmi vigliacco, perché sarebbe troppo comodo posizionarmi tra gli impotenti, tra coloro che ci avrebbero voluto provare ma hanno desistito“. Non potrei esordire che in un modo più tuonante e veritiero di questo titolo. Sono un giovane calabrese ormai residente a Roma da 10 anni, che si è naturalizzato nella caput mundi, che è scappato dalla sua terra guardandola affondare anno dopo anno sempre di più. L’ho fatto come lo hanno fatto molti altri prima di me ed insieme a me, chi più passivamente ed altri come me che comunque non hanno avuto il pieno coraggio di voltare lo sguardo ed a mai più rivederci. Sono sempre stato attento, nel mio piccolo ho fatto delle battaglie virtuali. Ogni volta che torno provo a destrutturare alcuni retaggi socio culturali aberranti, ma è poco, troppo poco per un territorio che necessiterebbe di un intervento massiccio di massa, di un interessamento fisico e viscerale senza precedenti. Ed è per questo che nell’ammenda dei miei peccati fatico a non considerarmi vigliacco, perché sarebbe troppo comodo posizionarmi tra gli impotenti, tra coloro che ci avrebbero voluto provare ma hanno desistito.

La Calabria ha un substrato di tradizione clientelare che nasce quasi nella notte dei tempi, la formula “dell’amico dell’amico” è talmente insita in ogni calabrese che pare quasi peccato disfarsene. Quella finta novella dell’accoglienza, che sembrerebbe quasi uno slogan comunista e che in realtà nasconde quanto sia profondo in Calabria il senso egoistico del coltivare solo il proprio orticello: “se serve a me allora mi ingegno, se serve agli altri è inutile”. No, perché non basta solo imbandire tavolate bucoliche a base di carne del maiale, ucciso con onore i mesi precedenti, per dirsi “veritieri” nell’accogliere. Non basta invitare l’amico di fuori regione per fargli vedere le meraviglie naturalistiche se poi per farlo arrivare a casa tua devi fargli fare l’interrail che non farebbe neanche in un paese del quinto mondo. Non bastano molte cose eppure così perdurano.

Le sottolineo, le sottolineiamo, ma tutto così resta, come una magica profezia di immobilismo. Senti parlare di ‘ndrangheta, che esiste per amor del cielo, ma se la paragonassi ad una gara da appalto ogni calabrese farebbe carte false per vincere il bando. L’indignazione è pari all’ammirazione che si ha verso il sistema mafioso e non si devono commettere efferati crimini per definirsi tali. Tutti ci indigniamo se vediamo il perpetrarsi di situazioni che non cambiano da sempre, ma mai che nessuno si impegnasse realmente per innescare un sistema di rivoluzione del pensiero, una sensibilizzazione delle coscienze. Ed allora tutto quel che accade intorno alla Calabria perde di senso, anche quest’ultima diatriba sulla sanità, sulla zona rossa, sui calabresi che troppo facilmente si lasciano convincere che la rivolta vada fatta perché sono costretti a rimanere a casa e non sul motivo radice del perché debbono farlo.

Ma perché è sempre più semplice interpellare il problema satellite e non si prova mai ad approdare nel pianeta incancrenito per provare a disinnescare la violenza del suo tormento? Forse questo sarebbe il momento per scendere in piazza, di raccogliere energie e menti brillanti per fare quello che si doveva fare almeno 50 anni fa.
E niente, ricordi che le utopie sono gratis ma smantellare il sistema richiede una dedizione ed uno sforzo talmente enorme, che ti fermi allo stato embrionale delle tue bizzarre intenzioni.

Uno, nessuno e centomila… il volto di un Calabrese vigliacco. – Francesco Oscar Ferraro

Caro Francesco,

nel leggere il tuo intervento mi è tornato alla mente un capitolo di un libro di un magistrato calabrese, Fausto Nisticò, pubblicato quasi trenta anni addietro, nel quale denuncia (già dal titolo che da al capitolo del libro: “Mangiatori di cocomeri”) in maniera cruda alcuni “alcuni retaggi culturali aberranti” della nostra terra di Calabria,: “Nonostante gli altisonanti titoli dei nostri giornali che il più delle volte mistificano  la realtà sarebbe meglio dare atto del pericolo delle strade senza manutenzione alcuna, dell’abitudine di buttare fuori i rifiuti, dei quotidiani furti e ruberie che, spesso, non fanno neanche notizia tanto ormai siamo abituati, dell’abitudine di tanti amministratori di intitolare strade a personaggi senza alcun merito, dell’assoluto mancato rispetto per la collettività, dell’abitudine inveterata a non rifinire gli esterni delle costruzioni, e di tante altre cose che fanno di questo posto una località gradita solo ai disordinati, ai chiassosi, ai “mangiatori di cocomeri” (“zzipangulàri” è il termine coniato nel nostro dialetto per mettere alla berlina chi si comporta in maniera incivile, questo l’ho aggiunto io!). Qui nel nome della Magna Grecia o di qualche antico filosofo solo nato in questa terra non si fa più nulla da secoli, si subisce la storia, si attendono sempre soluzioni da qualcun altro, si pretendono con la stessa petulanza con la quale in certi posti ci viene chiesta insistentemente l’elemosina. E se discuti con qualche intelligenza assopita ti senti rispondere che questa è stata la terra di Tommaso Campanella e di tanti altri uomini illustri, e che il mare è pulitissimo e che le melanzane ed i peperoni sono coltivati senza concimi e che il vino non è trattato con il bisolfito (chissà quali porcherie mangiano e bevono in altre parti d’Italia).

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Striscia una radicata ammirazione e solidarietà con chi delinque e quando viene liberato non manca chi si congratula come se tornasse da una impresa cavalleresca. Le bancarelle dei mercati sono piene di pesce freschissimo, ma se passeggi lungo il mare, sulla spiaggia tutta occupata da improvvisati stabilimenti balneari, giostre e paninoteche, non troverai una sola barca di pescatori: e dunque, da dove viene portato tutto quel pesce? Qui fondali profondi nascondono la sporcizia del mare e sulla sabbia bianchissima e granulosa, da anni non rimosse, giacciono lattine di coca cola, rifiuti, residui di falò, pannolini per bambini e bucce di cocomero putrefatto. L’illusione di aver vissuto lontanissime epoche d’oro e la cecità sul presente fanno, dunque, di questa terra il luogo degli assopiti, dove bulli e trafficanti di ogni genere razzolano indisturbati nella convinzione di essere i primi, immeritatamente dimenticati da tutti gli altri”.

Lasciando da parte le considerazioni del Nisticò (per quanto dobbiamo constatare che sono “amare e vere”) come fare, nel contesto da te descritto nella tua lettera, a non ricordare come “il calabrese” ha sperimentato, forse più di ogni altro in Italia, cosa significa essere senza Patria, senza un focolare, disperso in tutti i Continenti della terra e, nella grandissima parte dei casi, non contento né complice, ma devastato dalla piaga della mafia e della ‘ndrangheta. Ma, nonostante tutto, quest’uomo non è mai stato visto come “vigliacco” (anche nel senso da te dato al termine usato nel tuo articolo), ma è rimasto attaccato ai valori della vita: l’amicizia e l’ospitalità, l’accoglienza anche nelle case più povere; la saggezza profonda nelle parole e nel pensiero, anche negli uomini più umili; la pazienza impressionante con la quale ognuno ha saputo attendere la propria storia. Sicuramente esistono anche aspetti negativi o carenti, sia nella nostra storia passata che in quella recente, ma non possiamo permettere di venire ridotti (anche in tempi drammatici come quelli che stiamo vivendo oggi per il Coronavirus) sempre all’immagine di mafia e clientele varie: la nostra Calabria, in particolare, terra di frontiera tra il Mediterraneo e l’Europa, è ancora un luogo dove, al di là di tutte le pecche che ci possono mettere addosso (che non sono peggiori di quelle delle altre Regioni), esiste ancora una grande umanità, tanto viva ed incisiva, quanto, per molti, inattesa e sconosciuta, nonostante le devastazioni operate a tutti i livelli della vita sociale dalle organizzazioni criminali… e anche dalla politica.

Caro Francesco, per concludere, quanto tempo pensi che riusciremo a resistere all’assenza di prospettive, di fiducia nell’avvenire e di un legame sociale con “qualcuno o qualcosa” a cui dare credito e ascolto? La speranza perversa, a questo punto è nella nostra ipocrisia: forse fingiamo di non credere, come per lungo tempo abbiamo finto di credere. Ma sotto sotto abbiamo qualcosa in cui crediamo, e non lo diciamo per timore che la “fabbrica del nulla” ce lo rovini, ed a questo punto, se qualcuno mi domanda da che parte sto, non ho esitazione a dire che sto dalla parte dove sono sempre stato, dalla parte della Calabria e della difesa del suo buon nome, nonostante il deserto avanza sempre di più. Scriveva tempo fa il filosofo Emanuele Severino: “A chi mi domanda da che parte sto, rispondo che tutti stiamo dalla stessa parte, la parte dove il deserto cresce. Ma lo sguardo che vede crescere il deserto, non appartiene al deserto. Sta dall’altra parte. E in esso è la risposta ad ogni possibilità di salvezza”.

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Ancora oggi, nonostante ci troviamo con la melma fino al collo, non possiamo non costatare come sono tanti quelli che non si accorgono che tanti capricci, tante lotte inutili, e dannose per il nostro territorio, nascondono solo l’avanzata del deserto e questa può essere fermata soltanto dando più spazio ai fatti e ai bisogni, che non alle inutili e dannose capricciose lotte che nulla hanno a che fare con la Calabria e i calabresi. Non abbiamo bisogno di analisi vuote o di sterili denunce, ma di uno sguardo sincero, leale e buono verso la nostra realtà. E penso che, nella drammatica “disperazione” che notiamo dovunque, non abbiamo altra alternativa che riconoscere, nell’inferno o nel deserto che abbiamo intorno, quei luoghi e quei fatti che sono in grado di dare senso alla nostra quotidiana fatica, per tenere alto il buon nome della nostra Calabria, anche attraverso un serio e responsabile impegno sociale e culturale, per il quale c’è solo da rimboccarsi le maniche e mettersi all’opera, perché il lavoro, se c’è l’amore per il proprio ambiente, non manca! – Michele Scozzarra

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