ANCHE IL NATALE DEL 2022 È LA RISPOSTA DI DIO AL DRAMMA DELL’UOMO

Il Natale 2022, come del resto il precedente e così come tutti gli altri, sarà per tanti cristiani e non cristiani, il ritorno di una consuetudine largamente prevista e addirittura tollerata nella struttura impietosa e disumana di questa società. Una parentesi, nella quale cristiani e non cristiani si prodigano a ritrovare i sentimenti della loro infanzia, i sentimenti e le aspirazioni dimenticati da anni, qualche residuo di bontà che fa aprire almeno il giorno di Natale le case e le istituzioni ai poveri, come se il problema fosse un pasto dignitoso a Natale. Il Natale come una caramella: la si assapora, la si succhia, si scioglie e qualche istante dopo non rimane più niente. Non dico che non ci siano cose buone o momenti significativi o testimonianze di benevolenza contro l’orrore dei rapporti quotidiani, retti solo da logiche di potere e di sopraffazione, ma il Natale cristiano non è questo.

Tutto accadde in una piccola capanna, o una grotta, nell’immensa notte del mondo. Quella capanna è più grande dei neri spazi infiniti, anche se in essa c’è a mala pena posto per un neonato, un uomo e una donna, un bue e un asino, perché in essa entra il mondo. Non solo i pastori ma tutti gli uomini, anche quelli vissuti prima e quelli che vivranno dopo, perché quella nascita “ha spalancato la porta oscura del tempo”. È la rinascita dell’umanità intera, di allora di prima e di dopo, perché quel Bambino non è venuto a fondare un’altra religione, forse superflua visto che ce n’erano e ce ne sono già troppe, bensì a cambiare la vita. La madre ha concepito quel neonato in maniera scandalosa, estranea a ogni benpensante moralismo matrimoniale; il padre lo ha accolto con coraggio e con l’amore di chi sa che ogni creatura è figlia di Dio e dunque nostra figlia. Il bue e l’asino, che riscaldano il bambino col loro fiato, lo proteggono in quel momento forse non meno dei genitori e ci ricordano gli oscuri cugini animali che vivono accanto a noi, neppur essi estranei al disegno e all’amore divino. L’uomo ha sempre potuto brandire la sua libertà e, sfidando ogni condizionamento, ogni istinto, ogni modello, costruire fatti di novità. L’uomo è libero di rompere il cerchio grigio del suo animalesco adattamento all’ambiente, è libero di puntare il suo sguardo in alto, alle stelle che non lo stanno solo a guardare. Nel Natale si rende maggiormente evidente il nesso della nostra persona con l’infinito che ci rende liberi, capaci di ricominciare sempre, capaci di assumere responsabilità di fronte a noi stessi e di fronte alla storia. La civiltà infatti non è un patrimonio di valori e di forme da custodire a tutti i costi, ma la fantasia di una costruzione dove la memoria diviene terreno fecondo per il cambiamento. Chi ha già deciso cosa è la giustizia, non ha più bisogno di nessuno, né di Dio né degli uomini per costruirla: gli basta il potere, non importa se violento o no, per mantenerla. Dio infatti ha bisogno di uomini che magari sbagliano, ma che sono liberi di cambiare e di costruire, uomini legati tra loro soltanto dai legami della libertà e della cultura.

L’Italia del 2022 ci presenta un quadro sociale molto arido, dove un ceto ricco, ambizioso, fa da locomotiva, mentre un altro ceto è sempre più tranquillo, contento di “guardare e giocare” e un terzo ceto, infine, è sempre più povero e sempre più ai margini. Sorge spontanea, a questo punto, una domanda: e la Chiesa dove sta in un’Italia così? Qualcuno la vorrebbe ridurre (e Pasolini era stato buon profeta) a una messaggeria innocua, un pulpito autorevole da cui mandare messaggi di consolazione o messaggi confezionati da altri per richiamare ad un minimo etico gli “oligarchi”, che giocano ad aiutare gli emarginati a sopravvivere. Ma un cattolicesimo così, per quanto accettato da tutti, è un cattolicesimo che nega sé stesso, resta chiuso nella gabbia dorata della propria “superiorità” morale. Resterebbe inerte davanti alla storia, incapace di proposta e di missionarietà. Oggi abbiamo bisogno di un cattolicesimo capace di iniziativa dentro la società; cioè missionario, secondo la propria più autentica indole. Il terreno della missione è infatti, oggi come sempre, innanzitutto, la condizione in cui gli uomini vivono, l’ambiente concretamente, fatto dei problemi e delle angosce che assillano tutti. È lì che si gioca l’evangelizzazione, non nei circoli chiusi estranei ai problemi della gente e alle realtà in cui si trovano autoconfinatesi come in un ghetto tante nostre realtà ecclesiali.

Un carissimo sacerdote nei giorni scorsi ha pubblicato un illuminante commento che rende evidente il “sogno” che ha chi ha a cuore le sorti della nostra Chiesa, della nostra Diocesi, delle nostre Parrocchie: Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione” (Evangelii gaudium, 27). Può il nostro Sinodo concluso di recente contribuire a realizzare questo sogno? Solo se per opera dello Spirito santo e il coraggio di convertirsi ognuno di noi sa entrare nello spirito della sinodalità vissuta come comunione: nel presbiterio, nelle relazioni tra le istituzioni ecclesiali (Curia, Parrocchie…), tra le Associazioni e i Gruppi ecclesiali, nella vita pastorale (evangelizzazione, catechesi, liturgia, Caritas) perché, come disse un giorno Mons. Luciano Bux, la vita della nostra Diocesi in tutte le sue articolazioni è vecchia di due secoli e non sa più parlare alle persone del nostro tempo”.

Per questo bisogna ritornare alle origini, quando il Cristianesimo era una storia semplice. Una volta chi si riaccostava alla Chiesa, dopo mesi o anni di latitanza, percepiva un messaggio semplice e chiaro che non aveva bibliografia da decifrare o studi specialistici da approfondire: c’erano i dieci comandamenti da rispettare, e soprattutto un confessionale che dispensava il perdono anche ai peccatori più incalliti. Se un cristiano molto incoerente del V secolo fosse entrato in una chiesa di Roma, sicuramente avrebbe percepito nelle parole di Leone Magno un grande segno di speranza: “Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita… Nessuno è escluso da questa felicità… Esulti il santo perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano perché è chiamato alla vita“. Fu tutto più semplice, anche per quei poveri pastori della Palestina. Nessuno gli chiese di essere più buoni. Di impegnarsi di più. Di ripetere discorsi. Si imbatterono, mentre erano dediti alla loro normale occupazione, in una presenza straordinaria. Ma umanissima: una ragazza aveva dato alla luce un bambino. C’era solo da andare a vedere. Tutti quanti… nessuno escluso! Anche noi come loro, ancora oggi, dopo 2022 anni…

Buon Natale a tutti.

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