A CHE COSA VALE LA PENA … SE NON SI CONOSCE LA PIETÀ ?

carcere (6)Ho letto che dall’inizio del 2015 sono stati 12 i casi di suicidio in carcere… e oltre a questi numeri ci sono anche quelli del “tentati” suicidi. Il Segretario del Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, Donato Capece, ha spiegato al Corriere della Sera che “il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze… la via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, della funzione del carcere”. Nell’estate del 2012, in una bellissima intervista, l’ex Giudice Gherardo Colombo, divenuto famoso per l’indagine milanese, poi soprannominata “Mani Pulite”, ha dichiarato:

“A cosa vale la pena ? Uno dei principali problemi è far coincidere la pena con il carcere. Sono stati i 33 anni passati in magistratura a portarmi a questa profonda convinzione: il carcere non è la risposta adeguata. Quando ho iniziato la mia carriera, pensavo che servisse, che fosse uno strumento idoneo. Poi ho cominciato a nutrire dubbi”.

Questa affermazione, allora, mi ha dato lo spunto per intervenire su Galatro Terme News, con un mio articolo proprio sul valore della pena oggi.

A CHE COSA VALE LA PENA… SE NON SI CONOSCE LA PIETÀ ?

 

carcere (7)La notizia che un detenuto si è visto negare, dal Magistrato di Sorveglianza, il permesso per andare a discutere la tesi di laurea alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma, è stata commentata su tanti giornali come “Uno schiaffo all’impegno di tante persone che investono sul recupero sociale”.

Protagonista della vicenda un detenuto di 40 anni del carcere di Regina Coeli, recluso da oltre cinque anni, che negli ultimi tre anni aveva sostenuto venti esami e aveva preparato con cura la propria tesi di laurea: un’analisi dei disegni e degli scritti realizzati, all’interno dei campi di sterminio nazisti, dalle vittime della Shoah.

Per una settimana, ha riferito il Garante dei detenuti del Lazio, la Magistratura di sorveglianza ha tenuto tutti in attesa: la famiglia, il detenuto, il nostro ufficio, la direzione del carcere, l’Università. Poi, a poche ore dalla discussione ha deciso di respingere la richiesta per motivi di legittimità”. Secondo il Garante “questa vicenda è uno schiaffo a chi sul recupero dei detenuti sta investendo molto ed a chi lavora quotidianamente per la risocializzazione e il riscatto culturale dei detenuti. Ora, il detenuto ci ha comunicato di non volersi più laureare in carcere. Aspetterà di farlo tra un anno, quando sarà un uomo libero”.

processoQuesta notizia mi ha fatto ricordare, con orrore, un articolo pubblicato qualche anno addietro, su un noto quotidiano, e sottolineo la parola orrore, perché ritengo che non ci voglia una laurea in diritto per arrivare a capire che, pur affermando il sacrosanto diritto della società a difendersi dai criminali, bisogna anche sostenere che la giustizia non può rivelare un volto “mostruoso”:

Il governo britannico si accinge a fare marcia indietro sulla direttiva che impone alle detenute di partorire in catene. Le nuove regole prevedono che le manette siano tolte al primo accenno di doglia e che la scorta rimanga fuori dal reparto maternità. A far piovere sul governo una valanga di critiche sono state le immagini riprese con una telecamera nascosta in un ospedale di Londra, dove una detenuta del carcere femminile di Holloway è rimasta per tutte le dodici ore di doglie, con un guardiano legato al polso. La donna è stata liberata solo quando è entrata in sala parto… Comunque le manette restano in vigore per le detenute ricoverate in ospedale per altri motivi. Una di queste, una tossicodipendente malata di Aids, dalla settimana scorsa si trova in un letto di ospedale con un guardiano legato al polso tramite una lunga catena. Un giudice le ha rifiutato la libertà provvisoria“.

Ricordo che mentre leggevo questa “perla”, senza scomodare il Beccaria, pensavo come, per fortuna, nel nostro Paese, nonostante tutto, non sono ammesse simili atrocità e come le pene non possono (o non dovrebbero!!!!) consistere in trattamenti contrari al senso di umanità…

Ma, in quegli stessi giorni, ricordo che ha avuto risonanza sui media una notizia che mi ha fatto ritornare i brividi… stavolta “brividi nostrani”:

carcere (1)Una storia italiana… la storia di due povere vite, di un uomo e di una donna, marito e moglie… Lui è detenuto nel carcere di Frosinone. Sua moglie a Roma. I due hanno tre figli ancora giovanissimi. Qualche giorno fa uno zio li ha accompagnati a Frosinone a far visita al padre carcerato… Tornando a casa, l’auto su cui viaggiavano i ragazzi, è stata coinvolta in un incidente e i due maggiori (Donato e Valentina, di anni 19 e 12) sono morti. E’ sopravvissuta solo Giordana, che ha sei anni, ma che secondo i medici è in condizioni disperate e lotta con la morte. Che altro può capitare ad un uomo e una donna? Quanto strazio può sopportare il cuore di due esseri umani? Non è stata già atroce la vita? Evidentemente non bastava perché alla madre sono state concesse solo quattro ore di permesso. Cronometrate. Saranno state appena sufficienti per arrivare ad Aprilia, dove si svolgevano i funerali, e tornare in gabbia… Ma non è solo questione di ingiustizia… Che cosa ce ne facciamo di uno Stato che non conosce neanche la pietà? Uno stato efficiente potrà essere un sogno irrealizzabile, ma è proprio così folle desiderare almeno una giustizia umana, uno Stato mite? ‘Le catene dell’umanità sofferente – scriveva Kafka – sono fatte di carta da ufficio’. Sembra proprio questa la nostra sorte“.

carcere (8)L’unica domanda che allora mi sono posto, ricordo che è stata quella che mi ha turbato di più… è stato proprio il domandarmi, se deve essere proprio così assurdo pensare che lo Stato possa aver un “cuore”… un cuore capace di opporsi a certe crudeltà che disonorano il nostro Paese, e non fanno certo onore alla nostra nobile tradizione giuridica.

Nei giorni scorsi, in una bellissima intervista, l’ex Giudice Gherardo Colombo, divenuto famoso per l’indagine milanese, poi soprannominata “Mani Pulite”, ha dichiarato:

“A cosa vale la pena ? Uno dei principali problemi è far coincidere la pena con il carcere. Sono stati i 33 anni passati in magistratura a portarmi a questa profonda convinzione: il carcere non è la risposta adeguata. Quando ho iniziato la mia carriera, pensavo che servisse, che fosse uno strumento idoneo. Poi ho cominciato a nutrire dubbi. Comunque, è un’evidenza che la detenzione è inadeguata rispetto allo scopo che si prefigge… Qui si pone il problema della pena : una persona che ha commesso un reato deve essere retribuita con il male o essere aiutata a non farlo più? La seconda strada può essere anche ben più pesante della punizione in sé, perché “muove” le intimità più profonde, rende consapevoli del male fatto e della sofferenza della vittima. Sono consapevole che la detenzione è da evitare nei modi in cui si realizza oggi, perché chi ha sbagliato non si smarrisca ancora di più. Per cui il tema alla radice è culturale: domina una giustizia retributiva, basata sull’esclusione, non sul recupero”.

Fedor Dostoevskij

Fedor Dostoevskij

Dostoevskij, che il peso di una “giustizia ingiusta” l’aveva provato direttamente sulla sua pelle, in più occasioni ha sempre scritto: “Non conoscono la pietà, conoscono solo la giustizia… per questo sono ingiusti!”

Mi rendo conto che a scrivere di queste cose ci piange il cuore, ma non ci è permesso assolutamente tacere… qualcosa nel nostro intimo ci muove per una reale affermazione della vita in ogni suo aspetto e dove difendere la vita significa, soprattutto, lottare per il suo valore, senza alcuno spirito di vendetta, neanche verso chi ha sbagliato.

E questo compito la nostra civiltà ce lo impone…

 

 

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