PRECEDENTI “ANTICHI” DEL VOTO DI SCAMBIO… UN PROBLEMA CHE PARTE DA LONTANO

Qualche anno addietro il Senato ha approvato il ddl contro il voto di scambio politico-mafioso: tante perplessità sono state manifestate da più parti sull’approvazione della nuova formulazione dell’art. 416-ter del codice penale. Al di là della “enunciazione” dell’articolo di legge, da molti è ritenuto pacifico, infatti, che “…oggi, malaffare, criminalità organizzata e politica abbiano individuato ben altre utilità attraverso le quali contrattare e distorcere il consenso: informazioni, appoggi, favori, concessioni, assunzioni, autorizzazioni, ecc., costituiscono elementi di scambio ben più redditizi di una semplice somma di denaro”. Chi è cosciente di questo, non può non augurarsi che il Parlamento sia in grado di mettere in campo tutti gli strumenti necessari ad assicurare una efficace, quanto reale, lotta alla corruzione, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli altissimi.

Non voglio entrare nel merito dei discorsi, fondati o meno, che abbiamo sentito su questo decreto, soprattutto da quelle parti che, parlando della decadenza attuale della politica, indicano gli ultimi decenni trascorsi come tra i più rovinosi della storia d’Italia, sostenendo che la politica si è corrotta solo “ai nostri giorni”. Prendendo spunto da questa visione ingenua e provinciale del problema, sono andato a spulciare nel nostro “passato più remoto” e credo sia interessante prendere in esame una testimonianza storica, che ci illumina con singolare precisione proprio sui precedenti antichi dell’odierno “voto di scambio”.

Ho scovato un breve opuscolo, che mi è stato segnalato tempo addietro, scritto probabilmente da Quinto Tullio Cicerone (fratello del celeberrimo Marco), che porta il titolo “Commentariolum petitionis”: un’espressione che potremmo felicemente tradurre, “piccolo vademecum per la campagna elettorale“. L’operetta fu scritta in occasione delle elezioni al consolato del 63 a.C., alle quali Marco Tullio si presentava come candidato, sfidando dei concorrenti potenti e agguerriti come Gaio Antonio Ibrida e Lucio Sergio Catilina. Marco era un homo novus, privo di illustri natali, e forte unicamente della propria virtus, dei meriti acquisiti sul campo nel corso della propria carriera forense: la battaglia politica, perciò, si preannunciava particolarmente aspra, tanto da indurre Quinto Tullio a sintetizzare (in una specie di lettera aperta indirizzata al fratello, e destinata a circolare tra tutti i suoi supporter) tutti i principali accorgimenti da tenere presenti durante la competizione, per conquistare quel favore degli elettori che avrebbe permesso all’ambizioso avvocato di raggiungere l’agognato successo.

Ebbene, vediamo quali erano questi consigli, questi “suggerimenti” per vincere le elezioni? Il linguaggio del Commentariolum è estremamente esplicito: “Per essere votati, occorre che gli elettori ricevano un vantaggio da questa elezione, e questo vantaggio può consistere in due cose: il piacere di avere come governante un amico, al quale si sia legati da rapporti di simpatia, di consuetudine, di intimità, e la prospettiva di poter trarre un beneficio dalla riconoscenza di un uomo potente il quale potrà in molti modi ricambiare il favore ricevuto in occasione della competizione elettorale“. Quanto, poi, all’amicizia, il manualetto insiste sulla sua importanza: il Candidato deve fare in modo di “farsi quanti più amici possibile, badando bene a mostrarsi un vero amico, sincero, duraturo; deve moltiplicare le conoscenze personali, deve mostrare di conoscere tutti per nome, deve spalancare la porta della propria casa, anche di notte. Deve, soprattutto, mostrarsi sinceramente interessato all’amicizia degli elettori, e tale desiderio sarà tanto più intenso, quanto più sarà legato alla prospettiva di ottenere vantaggi materiali, suscitando la speranza di un’amicizia utile (Spes utulitatis atque amicitiae)“.

Per quel che riguarda la promessa di favori e di aiuti di vario genere, offerti in cambio di un sostegno nella campagna elettorale, il manualetto non è solo esplicito ma insistente, ripetitivo fino alla monotonia: “Occorre promettere tutto il possibile, al massimo numero di persone, facendo in modo che siano in molti ad attendersi dei precisi vantaggi dal successo del candidato. A ogni richiesta che si riceva, pertanto, occorre rispondere affermativamente: anche quando si prevede che essa non potrà essere realmente esaudita. Infatti – spiega cinicamente l’autore – è meglio fronteggiare in seguito il risentimento di chi non si vedrà soddisfatto, piuttosto che subire subito il malumore derivante da una serie di rifiuti“. Insomma, secondo la descrizione di Cicerone, il voto di scambio non appare affatto come una deviazione o una degenerazione, bensì come la regola fondamentale dell’intero sistema elettorale romano. Né è da pensare che il clan ciceroniano spiccasse per particolare immoralità: il manualetto, pur non destinato ad una larga diffusione, non era affatto un’opera segreta; e in esso, anzi, si insiste nell’elogio della virtù dell’homo novus Cicerone, contrapposta alla cattiva fama dei suoi avversari. Promettere servigi di ogni tipo era considerato perfettamente compatibile con la più specchiata reputazione.

Per portare il discorso ai giorni nostri, che dire… certamente oggi nessun candidato, o persona di sua fiducia, oserebbe far circolare un testo così spregiudicato come il Commentariolum: però mi domando, e chiedo, se sia più da apprezzare la franchezza con cui queste cose erano scritte e pubblicate dagli “antichi”, oppure la finta moralità che fa tacere in pubblico i moderni, anche quando, nella prassi, certi metodi continuano ad essere ampiamente praticati! Perfino Seneca, talvolta così pesante nel suo rigore stoico, a chi gli rimproverava di amare il denaro, gli agi ed i possedimenti che come filosofo avrebbe dovuto disprezzare, risponde: “Io parlo della virtù, non di me. Io sono nel profondo dei vizi e quando condanno i vizi, per primi condanno i miei. La vostra velenosa malignità non mi impedirà di continuare a onorare la virtù e a seguirla anche arrancando da lontano”. E’, questa di Seneca, una coraggiosa condanna del moralismo, che non tiene conto della debolezza umana… anche oggi, a parole il rinnovamento morale viene ad occupare il primo posto… però bisogna pur riconoscere che i discorsi non solo non hanno la forza di rendere migliore l’uomo, ma di solito servono da copertura alle malefatte del potere.

E nel costatare, amaramente, come ad una efficace e opportuna azione politica si sono sostituiti discorsi, o meglio chiacchiere, sulla moralità, in tempi di così cruenta rivoluzione puritana, quanto più umano appare lo sfogo di Cesare Pavese: “Basta con la morale. Solo la carità è rispettabile“. Che io mi permetto di tradurre: “Basta con gli sterili discorsi, torniamo a fare politica, quella che bada solo alla difesa di una comunità concreta, ne conosce i bisogni e si attiva per risolverli“. Il resto sono palle per gli ingenui…

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