DA RICCHI CHE ERAVAMO… STIAMO RITORNANDO POVERA GENTE!
Le difficoltà economiche di questo periodo (la “crisi”, tanto per usare una parola in questi giorni familiare) hanno allargato di parecchio la forbice tra ricchi e poveri: cresce il numero dei poveri, così come cresce anche “l’apprensione utilitaristica” per una vita che si spera ancora, che in un prossimo futuro, possa essere agiata e senza rischi.
Tagli all’occupazione e riduzione dei consumi. Lavoratori che si trovano senza lavoro a quaranta o cinquant’anni, neolaureati che non sanno a che santo votarsi per un posto. Famiglie che devono fare i conti con un bilancio che lascia margini sempre più esigui per i costi che la crisi fa inevitabilmente lievitare (il cibo, la salute, la casa, l’educazione dei figli).
La conseguenza più rilevante di questa crisi si fa sentire soprattutto nell’occupazione. E le difficoltà a inserirsi, o a rientrare, nel mondo del lavoro hanno un impatto sociale fortissimo… la riduzione di occupazione può colpire chiunque, indistintamente. Meriti e colpe personali non c’entrano.
Tutto questo ha certamente una ricaduta sui consumi e ne impone una certa riduzione, costringe a ripensare l’uso dei risparmi, le spese familiari o le vacanze, insomma impone un sacrificio reale che tocca tutti. Chi reagisce lo fa solo per difendere privilegi e posizioni raggiunte, secondo la peggiore logica corporativistica: ognuno reagisce da monade. Ci si muove secondo un criterio di difesa della propria categoria: i parlamentari difendono i loro privilegi, così come i giudici, gli insegnanti, i medici, i commercianti, gli avvocati, ecc. Ogni gruppo difende, con le unghie e con i denti, i propri privilegi acquisiti che ora vede minacciati. Qualcuno deve essere sbalzato fuori per garantire la sopravvivenza di un altro: il disagio di un amico disoccupato difficilmente favorisce una vicinanza, ma approfondisce una distanza e, ultimamente, una solitudine.
La sensibilità verso i deboli diminuisce fino a scomparire. Non solo quella della persona, ma anche quella dello Stato. Quando c’è aria di crisi da dove cominciare a tagliare? Dalle spese per i deboli e i meno abbienti: lavoratori dipendenti, anziani, disoccupati, malati e studenti. Una politica sociale in favore dei più deboli (sia che si chiamino immigrati, disabili, anziani, e quanti altri) distrarrebbe quote di denaro dei contribuenti, facendoci diventare tutti ancora più poveri!
Solo poco tempo fa, dire che migliaia di famiglie la mattina non hanno nel frigorifero il cibo per il pranzo, avrebbe fatto esclamare: esagerati! Ma ora, siamo arrivati a questo punto, il bisogno si sta misurando concretamente in termini di… fame! E se i contributi statali vengono tagliati per ridurre il deficit dello Stato, chi dispone di mezzi propri sopravvive, gli altri scompaiono… e non solo per modo di dire!
Spesso, nel sentire i dibattiti in televisione, ci sentiamo come chi ospita in casa propria uno straniero che parla una lingua sconosciuta: come non inorridire quando si sentono tanti inutili e “interessati” discorsi a tutela dei diritti di “casta”. In altri tempi, per molto meno di quello che sta succedendo, si riempivano (o si “pilotavano”!) le piazze. Oggi regna un silenzio tombale su tutti i fronti, non solo quello dei sindacati, ma anche quello degli studenti che, inutile negarlo, in tante proteste hanno sempre trovato la “giusta” occasione per scendere in piazza e non entrare in classe! Mi viene in mente la profezia del poeta Czeslaw Milosz: “Si è riusciti a far credere all’uomo / che, se vive, è solo per grazia dei potenti. / Pensi dunque a bere il caffè e a dar la caccia alle farfalle. / Chi ama la res pubblica avrà la mano mozzata”.
Non possiamo assolutamente non domandarci dove stiamo andando a finire? In quali terribili interessi di “parte” abbiamo affidato le sorti nostre e della nostra Nazione? Di fronte a questo continuo massacro, cosa possiamo dire noi poveri semplici cittadini, lontani mille miglia dalle stanze del potere? Nobilitando molto le cose, potremmo riprendere quel discorso che Lucio Sergio Catilina nel 62 a.C. pronunciò, davanti ai congiurati, contro le oligarchie che, dietro il paravento di una Repubblica e di una democrazia ridotte a parodia, opprimevano, come sempre, il popolo: “Ora che il governo della Repubblica è caduto nel pieno arbitrio di pochi prepotenti, re e tetrarchi sono divenuti vassalli loro, a loro popoli e nazioni pagano i tributi; noi altri tutti, valorosi, valenti, nobili e plebei, non fummo che volgo, senza considerazione, senza autorità, schiavi di coloro cui faremmo paura sol che la democrazia esistesse davvero“.
Ma adesso che la democrazia e il rispetto verso il “popolo”, sembrano non avere cittadinanza nel nostro Paese, dobbiamo fermarci a ragionare, almeno per un pò, su che cosa significhi davvero la parola “libertà”, e sul fatto che questa non può essere facilmente inghiottita dagli interessi di “pochi” (siano esse banche o altri centri di potere, occulto e meno!), perché l’alternativa ad una scelta di libertà, in questo momento, per il nostro Paese potrebbe essere davvero un suicidio! D’altronde, era già stato detto della nostra Nazione, da parte del sommo Dante, quale sarebbe stata la nostra permanente tragedia, la tragedia che appartiene all’essenza della nostra storia, che anche in questi terribili giorni dell’anno del Signore 2012 viene confermata:
“Ahi serva Italia, di dolore ostello
nave senza nocchiero in gran tempesta
non donna di province, ma bordello!“. (Purg. VI, 76-78).