VINCENZO CORDOMA, UN POETA GALATRESE CHE CANTA L’AMORE
Da quasi due anni tengo, in bella vista, sulla mia scrivania l’ultima opera dell’amico Vincenzo Cordoma “Canto quanto Amor mi spira”, la cui lettura ha fatto rivivere in me le stesse sensazioni che ho provato quando ho letto, per la prima volta, i versi dell’altro suo libro “Vecchi e nuovi sprazzi”.
Ho letto più volte e con gusto, questa sua seconda fatica, facendo mio il giudizio del Prof. Bruno Bagalà che si legge nella prefazione: “ … Cordoma si ritaglia uno spazio tutto suo, gravido di un temperamento particolare e privo di tentennamenti. Risulta chiaro che Cordoma ha meditato i suoi temi per anni, che li ha prodotti e verificati ora dopo ora, anno dopo anno. La sua non è arte improvvisa, ma che aggiunge, strato a strato, occasione a occasione, per arrivare a quella chiarezza e naturalezza che gli è propria e che perciò viene da un fondo di osservazione attenta, precisa, rigorosa… “.
Per le sensazioni che mi ha ispirato “Canto quanto Amor mi spira”, mi piace riportare, per i lettori di Galatro Terme, quanto ho già scritto sul nostro “inquieto” poeta per il suo primo libro, che con il secondo conferma e rafforza in me, quanto avevo intuito ed espresso nella lettura delle sue prime poesie.
Vincenzo Cordoma, galatrese di nascita, ha vissuto a Galatro nell’età della gioventù poi si è trasferito a Montepulciano dove è morto l’8 luglio del 2012.
In “Vecchi e nuovi sprazzi” di Vincenzo Cordoma
LO SGUARDO INQUIETO DEL POETA
Il desiderio di scrivere dei pensieri, sul libro di un compaesano che nemmeno conosco, è nato dall’ascolto, dal sentir raccontare in maniera lucida e stimolante, da parte del mio amico Rocco Di Matteo, della bellezza che suscita la lettura dei versi del poeta Vincenzo Cordoma: dall’ascolto anche di semplici discorsi, nascono le domande e si avviano le conversazioni… alla fine ci si accorge di possedere un patrimonio prezioso di maestri, e di amici, che portano in alto il nome del nostro “natio borgo”… sui quali vale la pena scrivere, e non solo per farli maggiormente conoscere.
Sono venuto a conoscenza della produzione letteraria di Vincenzo Cordoma, attraverso il volume “Vecchi e nuovi sprazzi”: pagine di riflessioni talora semplici, così semplici da parere ovvie, e che, per quest’eccessiva semplicità, non mancano di sfiorare un livello che è al di sopra dell’abituale snocciolarsi dei nostri pensieri.
Molto toccanti le riflessioni di Maria Concetta Zirilli, sulla poesia del Cordoma: “non vi palpita la tenue luce dell’alba né il fulgore del meriggio, ma vi è soffusa la malinconia violacea del crepuscolo. Motivi dominanti il senso della caducità, la crisi esistenziale, il rimpianto della giovinezza, l’angoscia della solitudine, la profonda amarezza per una società smarrita, schiava di falsi valori, senza ideali. Qua e là, però, traspaiono scintille di fede, l’anelito verso l’Eterno, il vivo desiderio dell’amicizia, la indomabile esigenza di donare… Una vera perla il ricordo della madre…”.
Già… il ricordo della madre, posto a mo’ di dedica del libro, è veramente una perla che fa venire i brividi, testimonia la grande sensibilità del poeta, creando il gusto ed il desiderio di proseguire in fretta nella lettura: “E’ un vecchio dialogo tratto da una agenda. Ti voglio bene, te ne vorrò sempre anche se ci saranno state (ero piccolissimo quando ebbi la fortuna di vederti per poco tempo) delle incomprensioni. Adesso, però, te ne voglio ancora di più non solo perché sono cresciuto ma soprattutto per il fatto che il dolore per la tua perdita è aumentato in relazione all’età.
Ma è tardi, mamma, è tardi anche per chiederti perdono. Ogniqualvolta rileggo questo dialogo sento il bisogno di piangere, non perché, mamma, non posso chiederti perdono ma principalmente perché non ti è stato dato il tempo di farti amare da me”.
Addentarsi nel libro del Cordoma è anche un’occasione per ripercorrere una testimonianza di umanità che permette di accogliere ciò che di umanamente bello, significativo e appassionato, anche se faticoso e sofferto, c’è nella vita. Si tratta anche di un abbraccio cordiale con le sue origini, con la cultura che ha caratterizzato l’ambiente nel quale è nato e cresciuto e del quale, nonostante la fisica lontananza, non si sente estraneo. Ed in questa ottica, chiarissime ed esplicative sono le espressioni di Fabrizio Ciavarelli: “Vincenzo Cordoma è uomo di lettere, plasmato dalle passioni forti, dai profumi intensi, dalle tinte del sud della sua giovinezza… chiede ai fiori, al mare, al cielo, agli uomini di risvegliarsi ancora e di emozionarlo; lo fa cospargendoli di inerzia, di aridità, di grigiore. Come “mistico” della morale riesce ad evocare il concetto di morte; cerca di restituire il fascino antico, il dolce mistero, il sapore di fiaba, trasferendone le sembianze nella natura che lo circonda… forse, l’acqua deve scorrere più velocemente per essere vera; il mare in tempesta per essere recepito, il volo dei gabbiani deve persino fare rumore, e la notte, popolata di fantasmi, spezzata da “gelido vento”, poiché l’uomo-poeta spera con ardore che gli oggetti dei suoi rimpianti si materializzino, per incanto nella loro pienezza. Egli ha bisogno paradossalmente dello spiegamento delle forze della vita per restituire dignità alla morte come magico, religioso, ancestrale significato di continuità. Per questo la sua poesia è creazione e preghiera…”.
Le suggestioni che si incontrano nella lettura dei versi del Cordoma non hanno tempo né età: tra di esse le più belle, godibili, sottili, sono quelle che racchiudono un ardore che si scontra con il limite (la morte) e scopre L’Eterno.
La tensione che si percepisce nei versi del Cordoma è quasi come “l’attesa di un assente”: si coglie una tristezza, una solitudine anche quando si sforza di vedere il segno di un assente desiderato che si avvicina, che non lo lascia solo.
Questa ricerca, di cui è impregnata tutta l’opera del Cordoma, è una lotta, una fatica armata per allontanare la morsa che sembra gli impedisca di raggiungere determinati desideri.
Da ultimo, bisogna accennare ad un tema che il Cordoma tocca in ogni sua sillaba, e che sottende tutta la sua espressione poetica: il timore che tutto sia menzogna. Ma basta una strofa, che si presenta come sintesi di un lungo itinerario poetico, per andare oltre questo limite, per toccare con mano come i suoi versi sono una preghiera, una invocazione, un dialogo con il solo Essere che può illuminare il suo (e nostro) cammino: “Non accenti sommessi. / Suoni vellutati e dolci / Da oboe emessi. / Nella oscurità il FARO.”.
articolo pubblicato nel febbraio del 2008 su Galatro Terme