CRISTO E’ MATURATO AL SUD – PARTE SECONDA – ESISTENZIALISMO E “DISPERATA” SANTITA’ DI MICU CICIGNA – di Piero Ocello

1 – ESISTENZIALISMO E “DISPERATA” SANTITA’ DI MICU CICIGNA

Era solito monologare animatamente con il Calvario. Testa fiera, palme abitualmente a volo di rondine o a fendente, braccia tese ad angolo variabile, parallele, a gomito; indici e pollici agilissimi tesi a scatto in ogni direzione, su divertiti o laconici passanti: sul naso o il mento, sugli occhi socchiusi spesso “sgranati” e accesi dalla veemenza, sulle meningi, su cani e gatti a debita distanza e all’erta: sulle lussuose… “regge” (povere ma candide dimore di pietra e calce e fango!); sugli argini del Metramo. Accompagnava i gesti, sempre rivolto al monte Calvario ed indicando di tanto in tanto il fiume, con imprecazioni selvagge: “Ddunca… falla stà schiunanzia, falla daveru: scippali tutti sti radici; e ‘ntassa li vroccula di l’angri e di li casi… di camaciuni parinchi lu cafuni!”. (Su via, deciditi a far piazza pulita, con l’alluvione che sdradichi, distruggi i broccoli negli orti e nelle case e colmi la valle con massi di pietra enormi). Le invettive però duravano poco. Presto erano seguite da trepidi sussurri conclusivi: “Eppuru… ‘a mu campanu”… (Ma dobbiamo pur vivere!). Non era pazzo, anche se con un sorrisetto di compatimento molti significavano di ritenerlo tale. Tutti però sapevano di poter contare sulla parola data dal bizzarro Cicigna. Mentre gesticolando conversava, soleva a tratti posare un piede sul parapetto divisorio di Largo Fontana, luogo dove la Sezione Montebello, con al vertice il bianco monumento delle tre croci e le nitide e armoniche casupole l’una sul tetto dell’altra, sembra toccarsi con mano nonostante la distanza notevole, anche di base, segnata degli argini del Metramo e dalle siepi di verdissime “angre”. Le mani di Cicigna e il volto e gli occhi, accompagnavano quel ragionamento. E le parole, sussurrate appena o fragorose a seconda del momento e del ritmo di quella misteriosa ragione interna nascente dal profondo, scandivano l’impatto dell’esser suo col reale da lui ritenuto, e si capiva benissimo, molto vanitoso e crudele. Fanciulli, giovani e adulti, salvo qualche battuta stuzzicante colma però sempre di affettuosa comprensione sia nell’ilarità che nella ignara sufficienza, in genere erano abituati a quella scena. E non vi davano peso, badavano ai fatti propri. Solo qualche monello, alle spalle, ascoltava i suoi discorsi.

 2 – DIGNITA’

Alle quattro del mattino era solito portar al “Bivio” a circa tre chilometri dal paese, le valigie dei signori da lui chiamati “regnanti” all’autobus diretto a Reggio Calabria. Nei tratti essenziali era pudico e cattivante: “Non pensare tu “natuledha” (cioè sbarbatello appena nato) di darmi il compenso dinanzi a tutti quei “regnanti” che come te attendono l’autobus… Devi stare attento… riservato!”, Da quale arcana fonte scaturivano tanta dignità e sì profondo senso di amor proprio?

3 – MOMENTI MAGICI

Alle prese con un ceppo (zzuccu) o con un tronco poco duttile ai colpi di scure, prima d’iniziare il lavoro consigliava: “dassatilu ‘na para di jorna fora… ca se chiovi si rimodha!…” (lasciatelo un paio di giorni fuori di casa –davanti alla porta- che se piove si ommorbidisce). Oppure grondante di sudore fra l’ironico e una specie di testardaggine e rabbia, con accanimento: “Ti registru jeu!… Ti spaccu la coratella e lu ceuni!… Ma nci vonnu setti madonni e menza…”.

4 – RITRATTO E LOGICA

Solenne quando passava scalzo; altero, con la lama della “ghaccia” (scure) rivolta all’indietro sulla spalla, pantaloni e giacca lucidi d’usura, decine di volte da lui stesso rattoppati, cappello all’alpina quasi sempre elegante anche se unto, calcato a “tono” sulla fronte. Una statua vivente. Mi appariva allora come un mito, una di quelle leggende care che, senza saperlo, conservi poi radicate nelle vene e nell’anima: personaggio da cui, nonostante la statura media, emanava un non so che d’ectoplastico che lo ingigantiva. La profonda umanità lo rendeva partecipe delle vicissitudini dei compaesani, mentre la sua vita era dignitosamente legata ad un sottile filo d’esistenza pur sostenuta da un lume di ragione robusta non facile da scoprire. Non portava orologio anche perché era roba da “regnanti” e non sapeva leggerlo. Con l’ombra di una asticella che piantava a terra, se ben disposta, dava l’ora esatta. Se nervoso (“cu la nervina”) e aveva fretta, piegando il dito medio sul palmo della mano destra esposta al sole riusciva ugualmente a dare l’ora, seccamente: “Sugnu li novi e menza!”. E così via.

Alla caduta del fascismo molti compaesani, a ragione o a torto, erano preoccupati delle possibili conseguenze che potevano scaturire dalla nuova situazione politica. Micu, spirito estremamente contestatario e indipendente, via via che gli eserciti alleati si avvicinavano alla piana di Gioia Tauro, si immedesimava sempre più degli incubi e dei timori del prossimo. Un giovane e valente artista (Il prof. Raffaele Sergio) che nulla aveva da temere anche se conservava nel “catoio” un pesante busto in terracotta di Mussolini da lui modellato su ordinazione, lo vide spuntare in casa molto serio: “Chidhu dha non sta chhiù beni… Metramu sulu si lu po ‘nghiuttiri”. Micu non disarmò di fronte alla gustosa risata dell’artista. Cogliendo l’occasione dell’assenza da casa dello scultore, si fece consegnare dalla timorosa madre del giovane la terracotta che proprio “ammucciuni” (di nascosto) diede in pasto alle ingorde acque del fiume. Reagiva adirato contro chi impietosamente lo scherniva, ma specialmente contro chi lo disturbava mentre, a tu per tu col Calvario, sciorinava e mimava abissali torrenti di “logica” indecifrabile.

5 – ARGOMENTI FOLGORANTI

Il monologo di Cicigna filava dritto alle tre croci sorvolando impietoso gli aranceti e i viandanti al crocevia. Volava sulla testa di bimbi e di vecchiette, intenti a giocare e a rammendare o a chiacchierare per ingannare il tempo, sulle porte di casa laggiù alla Giudecca. Fremeva sul Metramo, trasfiggendo a impulsi i tetti a presepe di quei “quartaroti” cocciuti, perennemente illusi dei lavori negli agrumeti, vigneti ed uliveti e nondimeno ritrovatisi poi col pugno colmo, ahimé, di solo vento. Sferzava le “facce toste” delle “jornatare”, raccoglitrici di olive, di quelle ingorde che dopo ore e ore di cammino, scalze, in pieno inverno fino a “Paghà” presso il “Marchese” nel cuore della Piana, si piegavano alla necessità fino a prostituire moralmente il proprio mondo per il miraggio di una “panzata” o “allippata”. Si legavano mani e piedi con la raccolta delle olive “a muzzu” (a cottimo) senza mai riuscire a procurarsi il “comodo” per l’intero anno, rimanendo sempre “mpiccati a li putighi” (pieni di debiti presso i negozi di generi alimentari) per una sarda salata e qualche “quarto” di pane o pasta. Ancor notte, al mattino uscivano e a notte fonda con pioggia, vento, neve, rientravano al proprio casolare come tante “runzune”, come puledre “stracque”. Quelle svergognate!… quelle puttane (Termine rabbioso, disperato, non offensivo). Ed ancora inveiva contro “Roccu” chi pe’ nu morzu i gudedhu caddu (la vagina) aveva ammazzato il contendente della propria amante. Che pazzia! Chidhi comu a Roccu fannu i guappi mi s’impantanu, mu ntrappanu la facci ‘ntra la merda”.

Con l’etica  della vendetta non si sarebbe pervenuti a la “santa pace”, ma a più cruda violenza, a ulteriore falsità: “Si cridinu ca lu mundu è chianu e ‘mbeci è di timpi e di timpuna” (credono che il mondo sia piano e invece è composto di colli e di montagne, cioè di difficoltà emergenti da una realtà imprevedibile). Lui, Micu, ne sa qualcosa. Si era rassegnato da giovane della donna di cui si era invaghito. Bisogna darsi un comportamento, che diamine! Le situazioni malvage esigono circospezione, coraggio, rinuncia, raccoglimento. Ma c’è ancora oggi chi dice che il cervello gli diè di volta proprio per quell’amore insoddisfatto. Il folgorante discorso cicignesco perveniva infine al naturale suo obietto, il Calvario, in un impasto di fremiti salati. Fortunatamente il Cristo, meglio dei paesani, capiva ogni protesta di Micu. E non poteva non essere così. La realtà infatti era congegnata in modo che Lui, l’Uomo-Dio, condivideva gli strazi di Cicigna e con Lui, anzi, solidarizzava. Quel discorso costituiva fenomeno abitudinario, indispensabile non solo per una corretta coreografia, ma per gli stessi segreti pensieri di ciascuna persona con la quale Cicigna in quei momenti polemizzava.

6 – DESTINO ATROCE E BEFFARDO

Quando Micu rivolto al Calvario, parlava al paese intero e all’umanità da lui riscoperta dopo la carneficina della prima guerra mondiale e inchiodata più di prima come Cristo alle tre croci, i monelli a volte di soppiatto gli attaccavano sul retro della giacca una lunga carta cui davano fuoco. Dormiva in una baracca sgangherata, nelle vicinanze del paese, ed era solito usare una pietra per cuscino e un po’ di paglia per terra. Soleva dormire anche in una stalla nei pressi dell’ufficio postale e qualche volta in una specie di antro presso “Rumbulu”. Nel fondarello che aveva regalato ai nipoti, anche essi poverissimi, non aveva più coraggio di mettere piede, lo evitava. Una volta durante una eccezionale “calata del Metramo” (alluvione spaventosa) una squadra di giovani a rischio della vita per puro miracolo riuscì a metterlo in salvo.

7 – REALTA’ ESISTENZIALE E SOCIALE DEL CALVARIO

Ontologia ed etica da Cicigna venivano così ridotte alla essenzialità dell’esistere e della realtà comunque pendente dal Calvario: non da una, ma da tre croci (salvezza, pentimento, dannazione: perché?). Il resto non contava. Micu si tormentava perché una cosa ritenesse fosse chiara e il resto no: capiva che proprio lì risiedeva la soluzione, in quel monumento che dominava il colle, la valle. E tormentava le menti, quella “cosa” chiara per Micu (il bianco calvario coi “misteri”), specie quando i compaesani impegnavano molto tempo nei preparativi dell’”Agonia”, della salita al monte in processione: a ricercare i danari necessari a sostenere le spese numerose per orchestra, addobbi in Chiesa, fuochi di artificio e via discorrendo. Il tutto sempre ritenuto indispensabile più dell’aria e del pane: proprio mentre la sofferenza del Cristo in croce rimaneva invece intatta, come quella di tutti i poveri del mondo, della Calabria martoriata e pur volenterosa. Allora ingiungeva al Calvario di rispondere, variando il tono di voce, usando tutti i metodi d’approccio di cui era capace nella tormentata ricerca di mimiche espressioni adeguate al suo dramma.

8 – TRASFIGURAZIONE E LAMENTI

Era così che repentinamente cambiava d’umore diventando confidenzialmente aspro e offensivo fino alle bestemmie, alle invettive assai più pesanti di quelle pronunciate per il ritardo del miracolo delle “parenti di san Gennaro”. “E comu ti consasti… via rispundi! Pecchìresti mpendutu… sfracellatu? Tu si daveru Rre di tutt’u mundu, potentuni cchiù povaru di mia, darrupali ‘ssì guappi tagghia cori! Sbigghiati, Cristu, ca la sannu longa. Ma a cui la cuntanu chidi (quelli, i signori, cioè i poveri meno poveri di lui) cu li grandi sfarzi… e vesti… e scarpi novi… ‘mprocessioni allippati… cu panza china e giammisedha janca! Tu lu sai… si sulu “zannijatu” (sei semplicemente preso in giro!). E non dicisti ca tu si via diritta e veritati?… ca di li gran patruna tu fai sfrattu? E ca di li “regnanti” cumbini mu si perdi la simenza? Ti chiamu a la parola… distruggili, distruggu ‘ssi figghi di puttana… ‘ssi marioli”. Questi son versi dell’abate Antonio Martino presi in prestito dalla “Preghiera al Padre Eterno contro i Piemontesi”. Per Micu ogni “regnante”, in fondo, poteva rappresentare nu “piemuntisi” potenziale o in atto proprio come, senz’ombra di dubbio, lo rappresentava lu “rre di la fundaria”, l’esattore. “Lupu affamatu… u lampu mu ‘nci mina e mu lu cogghi!”… Lu pani cu li lacrimi ammogghiamu… ma ‘ntra lu cannorozzu vaci strittu”, era solito borbottare. “E statti quetu… ccittu!”, intimava. Quando alla fine si convinceva che le sue domande potevano ottenere risposta solo nell’intimità del cuore presso il giaciglio o “pagghiuni”, egli si trasformava in dolcezza e in mansuetudine. Mogio mogio, con una scusa qualsiasi andava a dare in tutta discrezione un saluto, attraverso le scale, presso questa o quella famiglia. “Gnurasi… ha mu campamu… maddamma Maria Rosa! – soleva dire con garbo a mia madre – Li facimu ddui astedhi per lu focu? La cassalora, sinnò, non gugghi!…”. (Si dobbiamo vivere, signora Maria Rosa: facciamo un pò di asticelle per il focolare? La pentola altrimenti non bolle!).

9 – SCIOPERO E DISPERATO BISOGNO DI ESSERE

Le pietre lanciate da Cicigna contro i monelli che avevano osato appiccicargli il fuoco alla schiena, non andavano mai a segno. Così come la “ferruzza” – piccolo coltello a serramanico – non fendeva che l’aria. Soleva minacciare: “Vi ca ti tagghiu la cudata” (Stai attento che ti taglio i glutei). Una volta che un monello lo aveva esasperato stuzzicandolo ricevette una larga ferita proprio ad un gluteo, ma non ricordo alcun altro da lui ferito. Per un paio di giorni, tuttavia, in casi del genere, Micu non si faceva vedere in giro. Nei giorni d’assenza le strade sembravano deserte tanto che ne sentivamo la mancanza. Ed era questa la sua grande protesta: solitaria meditazione nella baracca o in qualche grotta, uno sciopero che non poteva durare a lungo. All’improvviso riemergeva stanato dalla voglia di vivere, dal disperato bisogno di essere. Ancora oggi i compaesani sono soliti rimproverare un figliolo o denigrare un conoscente per via del modo trasandato di vestire: “pari a Cicigna!”. E’ la testimonianza di quanto la sua figura ha inciso nella mente e nei cuori. Il parroco Don Rocco Distilo probabilmente ripenserà la morte di Cicigna quando, molto più tardi, si troverà a comporre la poesia commovente in cui descrive l’agonia di un povero da lui assistito.

10 – APOTEOSI

I funerali di Cicigna furono una grande manifestazione di affetto e di cordoglio. Un’apoteosi, come testimoniano quelli che vi parteciparono. I giovani costituitisi in comitato, raccolsero i fondi per un rito funebre solenne come quello riservato ai ricchi: rinomato complesso bandistico, tre sacerdoti, croce d’argento. Ai poveri, di solito, era riservata la croce di legno.

11 – IL SANTO DELLA DEGRADAZIONE SOCIALE

Era questo l’uomo Cicigna, il santo della miseria sociale, da tutti amato, che tutti serviva e che contro tutti appariva quasi sempre crucciato. Era il santo prodotto dell’egoismo altrui, l’eroe che, pur disperato in disperata povertà, utilizza il possibile, non vuole accettare la compassionevole elemosina; e non sopporta le zannelle. Eccolo dunque, psicanalizzatelo se volete. Ma credo che sarà difficile cogliere l’essenza dell’anima di Cicigna, senza rinnovare il proprio cuore per diventare, come lui, umilmente protesi alla scoperta del bene. Micu Cicigna dunque, era colui che più di ogni altro esprimeva il dramma umano e sociale della Calabria, desiderosa di vivere, di superare gli abissi.

Calabria terra nostra, terra d’ogni caddizza

Scagghia puntusa e dura, petra senza ricchizza;

sempri tu fusti l’urtima, la menu carculata,

pe’ tana di briganti fusti e si mentugata,

Tu si superviusa, non sai limosinari

Ma fusti e si’ regina chi dezzi e sempri duna;

e di lacrimi e sangu è fatta ‘a to curuna.

Focu, colera, laga, guerra e briganteria

E terremoti e fami: mai si sperdiru ‘i tia;

e sempri risurgisti, sempri isasti a testa,

sempri doppu u mortoriu, campaniasti a festa”.

(Da “Umile Lampada” di Vincenzo Spinoso – Bagnara Calabria 1952, pag. 9)

12 – NEL SENO DI ABRAMO

Tanti altri episodi della sua vita straordinaria meriterebbero essere qui descritti, ma andremmo per le lunghe. Preferisco concludere ricordando come il bizzarro filosofo amato persino per quelle stramberie che fan colore e comodo, come l’uomo che pur rifiutando sdegnosamente l’elemosina sapeva dare tanto, moltissimo della sua dolorante umanità: insegnando, nonostante le forme contorte ed il conseguente disgusto per il mondo dei “regnanti”, dei falsi, dei ciechi, le vie dell’umiltà e della santa carità, del riscatto: in qualsiasi condizione. Egli trovasi ora nel seno di Abramo. E tutto conosce dei misteri del Calvario “a li timpi” (sulle falde del colle), privilegiato, in questo, più di Dante al cospetto di Dio, dato che il suo viaggio attraverso l’inferno e il purgatorio prima d’arrivare in paradiso, l’ha compiuto sulla terra per mezzo dei fenomeni abituali in forme e modi occasionalmente impostigli dalla vita. Senonché dal posto privilegiato neppure lui oggi avverte la necessità di portare un dito d’acqua che stemperi in qualche modo l’arsura della nostra anima. Ci ha lasciato abbondante testimonianza della vita da lui sofferta, costruita momento per momento. E tanto, secondo Micu, basta.

Piero Ocello, CALABRIA LETTERARIA, ANNO XXIX – N. 1-2-3- GENNAIO – FEBBRAIO – MARZO 1981

Mi ha sempre affascinato l’idea di creare, in questa mia pagina web, una “sezione”, anche piccola, di articoli su “Galatro e Galatresi” che, pubblicati nel corso degli anni passati da quanti si sono occupati di Galatro e della sua storia, meritano ancora oggi di essere riproposti per la delicatezza delle tematiche affrontate e per quanto ancora riescono a “risvegliare e far ricordare”. Con questo articolo voglio ricordare Mico Cicigna, che sta scomparendo anche nel ricordo del solo nome, ed il caro Prof. Pierino Ocello che ha scritto l’articolo. Non voglio fare nessun altro commento… spero solo di riuscire a portare alla luce tanti altri articoli come questo. (ms)

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