PER IL 2023 OGGI TRASCORSO: TE DEUM LAUDAMUS…
In questo ultimo giorno dell’anno voglio scrivere, in sintonia con la liturgia che la Chiesa propone, un mio personale “Te Deum laudamus” per questo 2023 che sta consumando le sue ultime ore. Di solito, in questo periodo, nel formulare gli auguri per l’anno nuovo che sta per cominciare, si dimentica che la Chiesa ci invita, invece, al ringraziamento per quello che abbiamo avuto nell’anno trascorso, con la recita del “Te Deum”.
Ognuno di noi deve qualcosa a qualcuno: anche solo per un gesto, per un consiglio o per una riflessione che ci permette di cadenzare al meglio il passo nel cammino delle scelte quotidiane. Nella vita privata, come in quella pubblica, il calore degli sguardi di coloro che rivolgono l’attenzione nei nostri confronti spesso evapora nella freneticità del quotidiano. Capita che i nostri affanni superino il ritmo delle lancette del tempo, ed il senso della vita rischi di perdere il suo significato più profondo poiché è immerso nella fragilità della nostra esistenza, organizzata sulla base di bisogni da soddisfare, sogni da difendere e segnata dall’ansia per un futuro da conquistarsi.
Ma nei giorni in cui si chiude l’anno capita anche di avere il tempo di fare qualche bilancio, di voltare lo sguardo indietro e notare come le immagini che rimangono impresse nella memoria facciano emergere ricordi il cui peso riempie di significato l’essenza della nostra vita. E ciò non significa che debbano essere unicamente eventi che ci hanno dato felicità. A volte anche il dolore di una scomparsa ci insegna tanto…
Certo non posso non riconoscere che, in questo periodo, non è molto facile innalzare una preghiera per esprimere “gratitudine”. Di cosa si può dire di essere grati, in un tempo come il nostro, dove per essere considerati “democratici e civili” pare occorra essere perennemente “contro” qualcuno, come se l’importante fosse avere un nemico cui attribuire la nostra infelicità. Ma il fatto è che avendo un nemico, e avendolo sempre nei pensieri si vive male: si vive cupi e astiosi, si sta in guardia, si pensa sempre a come fargliela pagare a qualcuno… Ignorando, o facendo finta di ignorare, che il primo effetto collaterale del rancore è il vivere male.
A essere grati, invece, si respira meglio. Uno che sa di avere ricevuto un dono è contento. E avendo incontrato almeno un giorno di destino buono, ha speranza. Avendo incontrato una generosità, può essere magnanimo. Generoso di giudizio e largo di cuore. Sono sempre più convinto che la posizione della gratitudine che la Chiesa ci indica (dalla preghiera prima di mangiare, al Te Deum dell’ultimo giorno dell’anno) sia la più umanamente feconda. Oltre che la più realista. Riconoscendo che non possiamo darci da soli nemmeno un battito in più del nostro cuore.
Essere grati… già, ma di che cosa dovremmo essere grati? La domanda si pone perché siamo così abituati a ciò che abbiamo, che facilmente non lo vediamo più. Per essere grati occorre prima di tutto riabituarsi a vedere: quelle cose solite e consuete, scontate, che sono lo svegliarsi al mattino e stare bene, e l’alzarsi, e potere camminare. La faccia della moglie o del marito, dei figli, degli amici; le strade di ogni giorno, e il lavoro, e di ogni giorno i fastidi: in ogni cosa riconoscere la ragione di una gratitudine… anche se, ammetto, non è così facile, perché solo sotto lo schiaffo di una grave malattia sfiorata, di un mortale pericolo evitato, si vede, a volte, in questa prospettiva. Poi si torna sempre nell’abitudine, dove tutto può sembrare noia o fatica.
Anche in “ciò che abbiamo di più caro” siamo messi alla prova ogni giorno, e c’è chi, come me, di fronte alla banalizzazione e all’evidente sconvolgimento di ciò che abbiamo di più caro, si rifugia nella “preghiera di riserva” riconoscendosi nello scritto di Charles Peguy, ne “L’arazzo di Nostra Signora, cahier dell’11 maggio 1913”: “Vecchio mio, sono molto cambiato rispetto a due anni fa. Sono un uomo nuovo. Ho tanto sofferto e tanto pregato. Vivo senza sacramento. È una sfida. Ma ho tesori di grazia, una sovrabbondanza di grazia inconcepibile. Obbedisco alle indicazioni. Non bisogna mai resistere. Ho un compito, una responsabilità enorme. In fondo, è una rinascita cattolica che si fa attraverso di me. Sono un peccatore. Non sono un santo. Sono un testimone, un cristiano nella parrocchia, un peccatore, ma un peccatore che ha tesori di grazia e un angelo custode incredibile. Non c’è niente di meno cristiano del moralismo. Ecco, mi abbandono. Figurati che per diciotto mesi non ho potuto dire Padre Nostro… “sia fatta la tua volontà”, non ho potuto dir questo. Non potevo. Lo capisci? Non potevo pregare Dio perché non potevo accettare la sua volontà. È spaventoso. Non si tratta di dire preghiere tanto per dire, si tratta di dire veramente quello che si dice. Io non potevo dire veramente “sia fatta la tua volontà”. Allora pregavo Maria. Le preghiere a Maria sono delle preghiere di riserva. Sì, preghiere di riserva. Non ce n’è una in tutta la liturgia, non una, capisci, non una che il peggior peccatore non possa dire veramente. Nel meccanismo della salvezza l’Ave Maria è l’ultimo soccorso. Con questo non si può essere perduti.”
Ma è nella gratitudine che lo sguardo, si allarga e si capisce che non si può essere perduti per i peccati degli “altri”… si guarda indietro e intorno, si guarda con più attenzione agli affetti cari che quasi sembravano nascosti, che danno la forza di andare avanti, perché spesso è anche l’amore per le persone che più amiamo che ci avvicina maggiormente a Dio: Te Deum laudamus per la moglie, per il marito, per i figli, per i nostri genitori (che anche se morti non c’è giorno che non ci vengano in mente); grazie per gli amici (non quelli “onesti”, o quelli “giusti”, ma quelli “misericordiosi”), quelli a cui si può raccontare di avere combinato qualsiasi cosa e comunque ti vogliono bene lo stesso.
E mentre faccio questo esercizio di gratitudine mi accorgo, con stupore, che più mi riconosco grato e più si allarga il fronte delle facce care e delle mille cose semplici delle quali non mi accorgo mai, e che pure stanno dentro un disegno più grande che posso anche chiamare “destino buono”. Quasi timidamente, in questo ultimo giorno dell’Anno del Signore 2023, dico grazie per tutto: Te Deum laudamus, in queste notti di dicembre fredde, così lunghe e buie… in queste notti d’inverno, che già fra pochi giorni, però, cominceranno impercettibilmente ad allungarsi, verso una nuova primavera di un nuovo anno.