NELL’ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI CARMELO CORDIANI
È già passato un anno da quel 19 ottobre del 2013, data in cui il direttore Carmelo Cordiani (familiarmente conosciuto dai galatresi come “professore Carmelino”) non è più nostro compagno di viaggio su questa terra; anche se attraverso la lettura dei tanti articoli che ci ha lasciato, possiamo continuare a dialogare con lui, e di lui, in una “presenza invisibile” che, nel suo viaggio terreno, ha lasciato tanti segni che non sono abbandonati all’oblio, ma che sono una grande testimonianza di sofferenza e di fede.
Ancora oggi, questo suo insegnamento continua a essere un grido sulla domanda principale che lo ha accompagnato per tutta la vita, cioè quello sull’esistenza di Dio e sul perché tante volte mette sul nostro cammino delle realtà che, umanamente, non è facile accettare a cuor leggero.
Esiste nella vita di Carmelo Cordiani, un filo conduttore che lega indissolubilmente la sua non facile avventura umana al cristianesimo. Seguire questo percorso, anche attraverso i suoi scritti, ci consente di tentare di capire il complesso rapporto che lui ha avuto con la sua spiritualità, con la sua ricerca del senso delle situazioni che il Signore gli ha fatto vivere.
In sostanza, tutta la sua storia, culturalmente e umanamente molto forte, che non può essere limitata e compresa soltanto nella sua carriera interamente dedicata alla scuola: sia nella sua attività di insegnante prima e dirigente scolastico dopo, che in quella che lo ha visto impegnato privatamente, nella preparazione e formazione di tanti ragazzi.
Ha partecipato attivamente, anche se discretamente, all’attività politica e sociale di Galatro, e la nostra realtà parrocchiale lo ha apprezzato per la sua presenza in Chiesa come animatore di tante attività con i ragazzi e come direttore del coro. Non posso tacere come don Gildo Albanese, in tante occasioni, mi ha sempre stimolato a scrivere proprio dell’impegno del professore Cordiani in parrocchia, dicendomi proprio che tanti momenti, che hanno visto i ragazzi della parrocchia protagonisti nella realizzazione di cori e recite, senza di lui non si sarebbero realizzati.
Il ritratto che ne viene fuori da questo “impegno” è soltanto l’immagine “esteriore” della vita di Carmelo Cordiani, che dice poco se non ci facciamo condurre nella sua, talvolta drammatica, immagine “interiore” che ne è la premessa, e il presupposto, di una terribile realtà che, nonostante ha cercato di imprigionarlo nei suoi tristi confini, non è mai riuscita a chiudergli quella finestra che lo ha immesso nella luce di Dio, che lo ha sempre sostenuto e accompagnato in ogni momento della sua vita.
La biografia umana, culturale e spirituale di Carmelo Cordiani deve essere vista e compresa sin dal “primo capitolo” del libro della sua vita: “L’uomo è un mistero. Occorre decifrarlo. E se ti ci vorrà tutta la vita per farlo, non dire che hai perso tempo. Io mi occupo di questo mistero perché voglio essere uomo”. In queste poche parole di Dostoevskij penso di poter “leggere” la vita di Carmelo Cordiani, proprio nel punto dove il “mistero” della sua “umanità ferita” si sono avvicinati a tal punto, tanto da diventare indissolubili.
Sicuramente, il primo capitolo della sua umana avventura non può essere individuato che in “Carletto”, un brevissimo racconto dove si intravede che, già nella tenerissima età, “Carletto / Carmelo” si è trovato di fronte alle domande ultime, quelle importanti e spaventose della vita (quali la vita e la morte), talvolta senza trovare una risposta, una di quelle risposte senza le quali non si può né vivere né morire:
“Di quel giorno Carletto ricordava tutto: la gente accorsa a casa sua, le sorelle grandi che si strappavano i capelli, il padre che lo teneva stretto a sé dicendogli che la mamma era andata in Cielo. E si chiedeva come fosse il Cielo, se anche lì la sua mamma piangeva come gli ultimi giorni, se quel dolore che la faceva piangere le era passato, se lo sentiva quando non poteva fare a meno di chiamarla. Nessuno gli rispondeva chiaro. Anche Don Pietro gli faceva capire che è molto difficile spiegare le cose che non si vedono, dire come stava la sua mamma in Cielo, quando era stato proprio lui ad accompagnarla al cimitero, a benedire con l’acqua santa la cassa che era stata murata nella cappella. Era solo sicuro che in Cielo non si può soffrire e che le mamme, dal Cielo, continuano a voler bene ai figli piccoli. Quando le mamme si sentono morire soffrono tanto, ma, poi, tutto è diverso perché l’anima, senza il corpo è leggera ed è vicina ai suoi cari senza farsi vedere.
Questo gli diceva Don Pietro. Se solo avesse potuto vederla un momento! Anche per un minuto, per convincersi che il dolore le era passato veramente, come diceva Don Pietro! Ricordava che il giorno prima di morire lo aveva fatto chiamare e se l’era tenuto un bel pezzo accanto al letto, Non gli aveva detto niente, non riusciva a dirgli niente, con gli occhi chiusi ed il respiro pesante. Durante quel tempo, però, aveva smesso di lamentarsi e Carletto pensò che tutto fosse finito e che sua mamma fosse guarita. Poi lo mandò a giocare e, dalla strada, Carletto sentì la mamma gridare dal dolore. Dopo appena tre mesi, il giorno dei morti, andò con le sorelle ed il padre ad accendere i lumini e mettere i fiori alla mamma. Quanta gente, quel giorno! I morti erano proprio tanti. La sua mamma non era sola, in Cielo. Se soffriva lei anche tanti altri soffrivano; e questo non poteva essere vero perché Gesù non può far soffrire tanta gente. Aveva sentito dire che Gesù è buono; chi è buono non può far star male la gente. Poi si accorse di una giovane donna che aggiustava i fiori su una tomba piccola e si avvicinò. La donna lo guardò senza parlare. Nessuno parlava, quel giorno, La gente stava muta e piangeva. “Anche i bambini possono morire” si disse. “Anche i bambini vanno in Cielo”. E pensava a come sarebbe bello se anche lui fosse morto insieme alla sua mamma, per starle vicino, per chiamarla e sentirla rispondere. Aveva dimenticato la sua voce e aveva tanta voglia di riascoltarla. Aveva anche un confuso ricordo dei suoi lineamenti. Ricordava il colore degli occhi, azzurro, e i capelli un po’ grigi. Il resto si perdeva anche quando chiudeva gli occhi. Guardò ancora la giovane donna che accendeva un lumino e muoveva le labbra come se stesse parlando con quel cumulo di terra. E pensava che lei aveva tanta voglia di sentire la voce di suo figlio quanta ne aveva lui di sentirsi chiamare “Carletto” da sua madre. Le rivolse due sole parole: “Cosa dice?”. “Sto parlando con mio figlio. Mi ascolta, sai. E mi risponde; io lo sento, perché i morti parlano. Non è vero che sono morti; parlano. Io parlo sempre con mio figlio e me lo sento vicino. Gli dico tutto quello che voglio. Quello che gli dicevo quando me lo tenevo accanto, quando mi faceva i dispetti, quando si sentì tanto male da chiudere gli occhi. E la sera devo dirgli che è tardi, che è ora di dormire, perché mi sento stanca e lui continua a parlarmi. Ma tu, cosa fai qui?” “C’è la mia mamma, lì, nella cappella. Ho portato anch’io fiori e lumini”. Gli occhi della giovane donna si illuminarono e Carletto si sentì una mano tra i capelli. Non fece caso alla giovane donna che aveva ripreso il suo discorso e nemmeno alla gente che gli stava attorno. La mano si fermò e Carletto capì. “Hai ragione, mamma. Come potevi dimenticare il tuo Carletto?”.
E, con il passare degli anni, “Carletto” è cresciuto… è diventato prima il Professore, poi il Dirigente Carmelo Cordiani, superando problemi enormi; ma il Signore, così come per Giobbe, anche per lui ha stabilito che il tempo della sofferenza non era finito con “Carletto”, e che fare la volontà di Dio significa anche accettare la sofferenza, in qualsiasi modo essa si manifesti. Anche attraverso la perdita di ciò che si ama di più, anche nella malattia e morte della figlia Maria.
Proprio quest’esperienza personale, drammatica, inaccettabile umanamente, dell’incurabile malattia della figlia, lo porta a interrogarsi sul senso della “sofferenza innocente” e a non sapere, e non volere, intenderla come un semplice dato naturale, o come una mera fatalità, e neanche come un segno della manifestazione o presenza di Dio.
La sua fede cristiana è messa alla prova, si interroga sui tanti “perché?” che la malattia e la morte di Maria fanno emergere nel suo animo, anche nella stanchezza che si trasforma in una tenerezza infinita che è inaccettabile alla sapienza di questo mondo e che consiste nel vedere il dolore, la sofferenza, la morte come un qualcosa che è difficile da capire e accettare. E questo emerge chiaramente nel suo articolo “In memoria di Domenico Pisano”, dove scrive: “Domenico ti chiedo un favore: cerca in Cielo una creatura tanto cara che come te ha preferito la Luce. Dille che noi siamo qui, in attesa. La nostra mente è tormentata dai tanti “perché?” che si affollano, alla ricerca inutile di una ragione. Non c’è ragione. Non c’è rassegnazione. Vogliamo uscire dal vuoto per ridare senso all’esistenza, per ritrovare la forza di concludere il resto del percorso con la speranza di entrare nella vostra Luce”.
Questo sguardo di tenerezza che esplode nel “favore” chiesto a Domenico, nonostante il proprio e l’altrui dolore, è possibile solo grazie alla fede che, nonostante i tanti “perché?” rimasti senza risposta, il professore Carmelino ha mantenuto fino alla fine.
Sono sicuro, almeno a ricordare gli ultimi dialoghi che abbiamo avuto, che la sua fede in Cristo è rimasta intatta, e penso che non siano stati pochi i momenti in cui ha tirato fuori tutta la fede che gli era rimasta, per dire alla moglie: “Marietta non piangere… Maria è con il Signore!”.
A distanza di un anno dal suo “dies natalis” ho voluto ricordare il “mistero” che ha accompagnato la vita di Carmelo Cordiani, senza minimamente cercare di interpretarlo, ma in punta di piedi, ricordare che nonostante i problemi, il dolore e la morte che gli hanno fatto tanto male, in lui non è mancata la promessa del bene, e oggi sono in tanti che lo ricordano e lo ringraziano per averli aiutati a gustare, attraverso l’arte, la musica e la cultura, le meraviglie della vita.
Pubblicato a ottobre del 2014